I dazi di Trump stanno favorendo la Cina, ma lui non lo sa

Tra i nemici dell’America individuati da Donald Trump, la Cina occupa un posto privilegiato. È sicuramente da qualche parte in cima all’elenco. Quando a inizio aprile il presidente statunitense ha annunciato dazi contro tutto e tutti dal Giardino delle Rose della Casa Bianca, Pechino era la prima voce della sua speciale tabella. Voleva essere un segnale forte: gli Stati Uniti sono in competizione con la Cina e vogliono vincere la battaglia economica, commerciale, politica, e su tutti i fronti.
Queste frizioni erano state la cifra stilistica anche nel primo mandato di Trump. Per questo lo scorso novembre il Partito comunista cinese era scattata sull’attenti alla notizia della rielezione del presidente più imprevedibile del mondo: ci si aspettava che avrebbe ripreso le relazioni bilaterali da dove le aveva interrotte quattro anni prima. Tradotto, un rinnovato impegno per bilanciare lo squilibrio commerciale tra i due Paesi, probabilmente attraverso tariffe punitive aggressive; critiche al regime politico cinese, con un’attenzione speciale alle minoranze e ai dissidenti; possibile rafforzamento del sostegno americano a Taiwan.
Tutte le prime misure di Trump sono andate in questa direzione. A febbraio e marzo, la Casa Bianca ha imposto una serie di dazi del dieci per cento sulle esportazioni cinesi a causa delle preoccupazioni relative all’ingresso di fentanyl negli Stati Uniti dalla Cina. Poi un dazio aggiuntivo del centoventicinque per cento su quasi tutte le esportazioni cinesi verso gli Stati Uniti.
La Cina aveva iniziato a temere che la sua economia stagnante non potesse reggere l’urto di politiche così aggressive. Poi, all’improvviso, è cambiato lo scenario. Una volta introdotti i dazi reciproci, Pechino è rimasta sorpresa nel constatare che era Washington la più desiderosa di allentare le tensioni. «Stati Uniti e Cina hanno firmato un accordo a Ginevra il 12 maggio per ridurre le aliquote tariffarie, e Trump e Xi hanno avuto una successiva telefonata il 5 giugno. Sebbene l’accordo non eliminasse i dazi, la prima fase di escalation commerciale era terminata. I leader cinesi si sono sentiti, con loro sorpresa, in una posizione di forza sul piano commerciale con gli Stati Uniti», scrive Yun Sun, direttore del programma cinese dello Stimson Center, su Foreign Affairs.
Sarà che quei dazi avrebbero indebolito anche gli Stati Uniti, le aziende e i consumatori americani, il mercato azionario e il mercato obbligazionario. Sarà che forse davvero Trump Always Chickens Out (Taco, cioè Trump se la fa sempre sotto, un’espressione nata la scorsa primavera proprio quando la Casa Bianca ha iniziato a ritirare alcune delle promesse più aggressive fatte nelle settimane precedenti). Comunque sia, oggi Pechino non teme più che le politiche di Trump possano abbattersi sulla sua economia come una tempesta perfetta. Anzi, scrive Yun Sun, «ha la sensazione di avere molto più potere e influenza sugli Stati Uniti in materia commerciale di quanto avessero immaginato in precedenza. E almeno per ora, considera Trump un partner più pragmatico e flessibile con cui collaborare rispetto ai falchi cinesi che hanno dettato le regole durante il primo mandato di Trump».
Questa diversa piega degli eventi ha cambiato i rapporti di forza diplomatici tra i due Paesi. Ora la Cina sa quanto gli Stati Uniti temano uno shock commerciale e possono ricamare su questo dettaglio in ogni negoziazione. Sa anche quanto gli Stati Uniti dipendano dalle terre rare e dai magneti, la cui fornitura è quasi interamente nelle mani di Pechino. Insomma, l’approccio raffazzonato di Trump e di tutta la sua amministrazione alla politica commerciale ha spostato gli Stati Uniti da una posizione di forza a una di subalternità.
Nel suo articolo su Foreign Affairs, Yun Sun racconta la distensione regnante nei dialoghi tra politici e analisti cinesi, tutto riassunto in una semplice domanda retorica: «E allora?». «C’è una guerra commerciale. E allora?», «Trump potrebbe aumentare la pressione sulla Cina. E allora?». «Ora c’è la convinzione che la capacità degli Stati Uniti di danneggiare gli interessi economici della Cina attraverso i dazi sia diminuita, il che offre a Pechino maggiore libertà d’azione nei futuri negoziati commerciali», si legge sulla rivista di politica internazionale.
La strategia di Trump non ha pagato in un primo momento, il presidente ha ripensato la sua strategia, ammorbidendola, e il presidente cinese Xi Jinping sente di aver vinto una battaglia importante sul fronte economico.
Inoltre, Trump sembra poco interessato alle questioni strettamente politiche. Non a caso, i timori cinesi di un maggior sostegno americano a Taiwan sono già dissolti. L’attenzione di Trump al commercio e la sua indifferenza ad altri temi sono esattamente ciò che Pechino cercava nei leader statunitensi. Paradossalmente, il presidente aggressivo, tutto America First e sprezzo degli interessi altrui, sta facendo il gioco della potenza economica rivale degli Stati Uniti: Trump è tutto ciò che la Cina avrebbe potuto desiderare.
Ora Pechino vorrebbe tradurre l’ottimismo di questi mesi in vantaggi di lungo periodo. Non sarà facile. Soprattutto perché Trump è sempre imprevedibile nelle sue scelte, nessuno può sapere quale sarà la sua strategia tra sei, dodici o diciotto mesi. «La preoccupazione comune, in Cina, è che i segnali commerciali positivi provenienti dagli Stati Uniti siano tattici ed effimeri, e che quindi sia solo questione di tempo prima che Washington riprenda l’ostilità nei confronti della Cina e del suo sistema politico», si legge su Foreign Affairs.
La Cina infatti ritiene di poter resistere alle pressioni degli Stati Uniti finché la questione principale sarà commerciale, non politica. Ma in ogni caso non può ritenersi al riparo da nuove aggressioni trumpiane. Il senso di potere nato nelle ultime settimane potrebbe fare rilassare la classe dirigente cinese, e magari provocare una risposta più dura da parte degli Stati Uniti, riportando le relazioni bilaterali in una spirale di reciproca sfiducia e ostilità: una condizione molto più difficile da gestire per Pechino.
«Indipendentemente da quanto i leader cinesi ritengano forte la loro posizione nei confronti degli Stati Uniti dopo sei mesi di secondo mandato di Trump – conclude Yun Sun in coda al suo articolo – ritengono di non avere altra scelta che prepararsi all’eventualità che il peggio debba ancora venire».
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