I ragazzi serbi difendono la libertà mentre noi europei difendiamo la convenienza

Abbiamo già scritto di Novi Sad, della tragedia cittadina di cui oggi ricorre il primo anniversario e del perché sia stata proprio questa a innescare la rivolta dei serbi contro il proprio presidente. Quando è crollata la pensilina della stazione ferroviaria locale, la colpa dietro quei sedici morti è stata subito chiara: l’inadempienza del governo, che ha scelto di trascurare i lavori di ristrutturazione nonostante fossero previsti. I soldi destinati ai lavori non sono mai arrivati a destinazione, ed è questo che ha fatto esplodere la rabbia dei serbi. Una rabbia che chi conosce la Serbia sa non essere nata con Novi Sad.
Due giorni fa gruppi di studenti provenienti da diverse città serbe hanno iniziato una marcia che li ha portati ad attraversare il Paese: l’altro ieri il blocco di Vrsac è stato accolto a Zrenjanin con il tappeto rosso steso dai cittadini; nella stessa serata, a Belgrado, i manifestanti provenienti da Petrovac na Mlavi sono stati accolti con cori e cortei spontanei. Episodi come questi hanno caratterizzato l’iniziativa dei ragazzi serbi, che si è conclusa oggi, una volta raggiunto il punto di arrivo: Novi Sad.
È un anno che il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić, muove la sua personale offensiva contro i manifestanti: non si contano più gli episodi di brutalità poliziesca, gli arresti senza mandato (che, molto spesso, si concludono con rilasci in attesa di processi che non avverranno mai), e le giornate caratterizzate dalla repressione violenta delle piazze. Polizia e manovalanza del partito di governo, aggrediscono gli studenti, anche minorenni, dipinti come pericolosi sovversivi. Una conferma che questi moti di piazza servono, come dimostrano le importanti vittorie raccolte dagli animatori delle barricate (la caduta del governo Vučević lo scorso aprile, o l’aver impedito che un organo di stampa finisse in mano alla maggioranza grazie all’ennesimo commissariamento governativo).
Vučić teme il primo novembre, e i suoi alleati internazionali lo fiancheggiano nel denunciare un complotto che non c’è. L’intelligence di Mosca descrive gli eventi parlando di un’imminente «Maidan serba» che dovrebbe partire oggi, un prodotto – sempre a detta dei russi – «di attività sovversive da parte dell’Unione europea e dei suoi Stati membri». Ironicamente, come ha fatto notare il giornalista Riccardo Michelucci su Avvenire, nemmeno Vučić si è spinto così in là («Non ci sarà alcuna replica di Maidan»), ma la retorica degli agenti stranieri è stata finora la principale arma propagandistica della presidenza. Molto probabilmente anche da noi qualcuno è cascato nel vecchio tormentone della rivoluzione colorata – che, assieme al disinteresse del pubblico generalista, contribuisce all’oblio in cui è caduta la protesta serba – un fattore reso ancora più grottesco dal fatto che queste manifestazioni non rivendicano un preciso indirizzo politico. Per Vučić, dietro la protesta c’è la mano dell’Occidente, nonostante in piazza scendano anche quelli che l’Occidente lo odiano.
Quello che succede oggi a Novi Sad dovrebbe interessare chiunque abbia a cuore la libertà di pensiero. Non è retorica, tantomeno sentimentalismo: tra gli obiettivi dichiarati del presidente Vučić ci sono anche i giornalisti. Abbiamo già scritto delle minacce alle redazioni e degli arresti illegali subiti da giornalisti colpevoli di riportare la cronaca delle manifestazioni. Ma quella che potrebbe sembrare, agli occhi dei soliti noti, una descrizione partigiana, viene invece confermata da Vučić stesso: «[I giornalisti] vogliono vedere guerre e conflitti. Possono provocare episodi isolati di violenza, dopo i quali verranno tutti arrestati: sono ben consapevoli che nessun altro inciterà alla violenza, tranne loro. Abbiamo problemi più gravi dei loro noiosi trucchetti».
Queste parole sono state stigmatizzate dalla Association of Independent Electronic Media (Anem), associazione per la tutela dei media serbi, che ha sottolineato come l’attacco alla stampa e l’identificazione dei giornalisti come presunti agenti sovversivi siano solo l’ultimo sintomo di una deriva autoritaria sotto gli occhi di tutti. Ma è qui che il paradosso diventa tanto plateale da risultare osceno.
Nonostante qualche richiamo ufficioso, l’Unione europea continua a dialogare con Aleksandar Vučić come se fosse un interlocutore qualunque. Il suo partito, quello che manda i picchiatori ad aggredire i ragazzini, resta osservatore del Partito popolare europeo. Il governo italiano continua a mantenere rapporti cordiali con il regime, nonostante l’arresto, lo scorso agosto, di un nostro concittadino che ha preso parte alle proteste. Ed è così che Aleksandar Vučić, bifronte, l’autocrate che guarda sia a Mosca che all’Europa, continua il suo gioco nell’impunità più totale.
Ma intanto, gli arresti continuano: continua la repressione e la caccia al sovversivo (uno studente, un professore che ha osato partecipare a un’occupazione, un giornalista che fa il suo lavoro). Ma continua anche la protesta, che oggi compie un anno esatto senza mostrare sintomi di stanchezza. Gli studenti non hanno mai smesso di manifestare, nemmeno di fronte alla nostra impassibilità. È per questo che oggi trascurare per l’ennesima volta il caso serbo non sarebbe soltanto sbagliato: sarebbe criminale.
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