La Corte di giustizia dell’UE ha salvato (in parte) la direttiva europea sul salario minimo
Bruxelles – La direttiva europea sul salario minimo non si tocca. O meglio, andrà limata, ma resta al suo posto. In una sentenza emessa oggi (11 novembre), la Corte di giustizia dell’Unione europea ha confermato la validità di gran parte della legge, annullando solo due disposizioni che costituiscono un’ingerenza nelle competenze esclusive dei Paesi membri sulla determinazione delle retribuzioni.
Adottata nel 2022, la direttiva non impone agli Stati membri un salario unico e uniforme, ma istituisce in sostanza un quadro normativo per garantire salari minimi adeguati negli Stati membri in cui essi sono previsti per legge, e promuove una contrattazione collettiva più forte sulla determinazione dei salari negli altri. La Danimarca – uno dei 5 Paesi dell’UE che ancora non ha adottato una busta paga minima garantita per legge, insieme a Italia, Austria, Finlandia e Svezia – ha trascinato la Commissione europea davanti alla Corte di Lussemburgo, sostenendo che la direttiva viola i trattati, in quanto legifera in materia di retribuzione e di diritto di associazione, aree che esulano dalle competenze di Bruxelles. Copenaghen ne ha chiesto l’annullamento integrale.
A gennaio, l’avvocato generale della Corte si era espresso a favore della Danimarca, raccomandando ai giudici di dare seguito al ricorso. Invece, oggi la Corte di giustizia ha dato ragione a Copenaghen solo in minima parte, individuando un’ingerenza solo in due specifiche disposizioni. La prima riguarda i criteri che la direttiva impone di prendere in considerazione – agli Stati membri che lo prevedono – nelle procedure per la determinazione e l’aggiornamento dei salari minimi. La seconda ingerenza nelle competenze nazionali è la norma che impedisce di fatto la riduzione dei salari minimi, quando questi siano soggetti a un meccanismo automatico di indicizzazione.
Queste due garanzie verranno meno. Ma per il resto, la Corte ha respinto il ricorso della Danimarca, confermando di fatto la validità della maggior parte della direttiva in questione. Secondo i giudici di Lussemburgo, la competenza esclusiva nazionale prevista dai Trattati “non si estende a tutte le questioni che presentano un nesso qualsiasi con le retribuzioni o il diritto di associazione” e non riguarda nemmeno “qualsiasi misura che, nella pratica, avrebbe effetti o ripercussioni sul livello delle retribuzioni”. L’ingerenza da parte di Bruxelles si ha solo nella determinazione diretta delle retribuzioni.
E per quanto riguarda la disposizione dedicata alla promozione della contrattazione collettiva sulla determinazione dei salari, la Corte ha escluso che questa implichi un’ingerenza del diritto dell’Unione nel diritto di associazione. “Tale disposizione non obbliga gli Stati membri a imporre l’adesione di un maggior
numero di lavoratori a un’organizzazione sindacale”, chiarisce la sentenza.
La Commissione europea ha reagito immediatamente, accogliendo con favore una sentenza che “conferma ampiamente la solidità giuridica” della direttiva. La presidente Ursula von der Leyen, in una nota, ha definito la sentenza “una pietra miliare” che “riguarda la dignità, l’equità e la sicurezza economica” dei cittadini europei. Von der Leyen ha ribadito che la direttiva va attuata “nel pieno rispetto delle tradizioni nazionali, dell’autonomia delle parti sociali e dell’importanza della contrattazione collettiva”. Sulle due disposizioni annullate dalla Corte, una portavoce dell’esecutivo ha spiegato che la Commissione “sta analizzando l’impatto” di tale decisione e stimato che “non inciderà in modo significativo sul quadro generale”.
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