L’accoglienza di Montreal, e i tipici personaggi di Mordecai Richler

Novembre 1, 2025 - 14:30
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L’accoglienza di Montreal, e i tipici personaggi di Mordecai Richler

Poche città mi rendono più felice di quanto lo faccia Montreal. Sì, amico mio, hai capito bene: Montreal. È in Canada, vero? Sì, certo, è in Canada. Ma adesso dimenticati di tutto quello che potresti forse sapere di quello sport chiamato curling. E, per favore, prova quantomeno a dimenticare (se davvero non riesci proprio a perdonarlo) quel modo di cantare da musical di Céline Dion e Corey Hart. Se c’è una città che può superare ogni tua aspettativa e forse – dico forse – soddisfare i tuoi sogni urbani, è questa. Prepara il tuo passaporto e chiedi quanto costano quegli stivali impermeabili. Perché Montreal è una città che non ti devi perdere.

Mentre l’aereo decollato da New York sorvola la catena montuosa degli Adirondacks e si abbassa sulla distesa grigia del fiume San Lorenzo dirigendosi verso questo bastione innevato che custodisce la civiltà francofona e un pâté spaventosamente buono, comincio a sentirmi euforico ed emozionato e a percepire una specie di nostalgia, come se, in passato, mi fossi lasciato alle spalle una vera vita montrealese. È una cosa, questa, che sarebbe anche potuta accadere. La mia famiglia, alla fine degli anni Settanta, emigrò dalla Leningrado sovietica e si stabilì a New York, ma un certo numero di nostri amici e parenti andarono invece in Canada e alcuni di loro proprio a Montreal. Uno di questi amici di famiglia, che era già un po’ in là con gli anni, aveva trasformato un appartamento di edilizia sovvenzionata (mmmh, il socialismo sponsorizzato dallo Stato) in una casetta accogliente. E, quando io e i miei genitori venimmo a trovarlo, ci colpì subito il fatto che Montreal avesse un certo garbo e un certo equilibrio e che sotto il suo skyline poco attraente e tipicamente nordamericano si nascondesse una rilassatezza europea.

Da ragazzo, poi, sono arrivato a un passo dall’iscrivermi alla famosa McGill University di Montreal e, benché mi sia poi laureato negli Stati Uniti, mi avventuro il più spesso possibile verso Nord, per venire in questa città in cui si trova la mia alma mater fittizia. L’anno scorso, per festeggiare il mio trentesimo compleanno, ho portato quassù undici dei miei migliori amici e ci siamo spazzolati montagne di ostriche, intere ciotole di fèves au lard (letteralmente “fagioli con il lardo”, un capolavoro della cucina québécoise) e un bel po’ di porto invecchiato trent’anni che era venduto a un prezzo incredibilmente basso. E due anni fa, durante un Capodanno imbiancato dalla neve, ho soggiornato con la mia fidanzata Millys nel nuovo Hotel St. Paul, un albergo maestoso in cui ci siamo goduti un quartierino immenso, delle dimensioni di un loft, la cui grandezza mi aveva fatto sentire allo stesso tempo piccolo e regale, come un vero Napoleone del Grande Nord.

Ogni grande città si merita un grande bardo – e senz’altro Montreal ne ha avuto uno in Mordecai Richler. Benché questo scrittore non abbia mai ottenuto la popolarità di altri divertenti romanzieri ebrei come, ad esempio, Saul Bellow o Philip Roth, quello humour che è stato il suo marchio di fabbrica – uno humour irriverente, terribilmente preciso e capace di fare terra bruciata – merita un posto nel pantheon della migliore letteratura satirica del mondo. Molto amato nel suo natio Canada, Richler è stato adottato anche dai lettori italiani al punto che in quel Paese è diventato cool definire “richleriano” ciò che non è politicamente corretto e la sua scomparsa, avvenuta nel 2001, ha suscitato vasto compianto.

I tipici personaggi di Richler sono degli immigrati ebrei di seconda o di terza generazione, dei tipi arrapati, sfacciati e sbruffoni, i cui comandamenti maschili sono le donne, la carne affumicata e lo sbronzarsi, qualche volta in quest’ordine, altre volte nell’ordine inverso e altre volte ancora in ulteriori bizzarre configurazioni. Il fatto che questi antieroi si conquistino la nostra simpatia è un segno del collaudato talento di Richler e della sua profonda conoscenza del modo in cui si può “costruire” l’ironia. Prendere per i fondelli i propri personaggi non è sufficiente: perché la cosa funzioni davvero bisogna renderli tanto tragici quanto divertenti. Forse avete letto L’apprendistato di Duddy Kravitz. O forse avete visto Soldi ad ogni costo, il film del 1974 basato su questo romanzo che, insieme con American Graffiti, contribuì a lanciare Richard Dreyfuss sul grande schermo. Duddy Kravitz, un adorabile opportunista con grandi sogni (e ancor più grandi lacune morali), cresce nella Montreal degli anni Quaranta escogitando innumerevoli metodi per diventare ricco abbastanza alla svelta e per trasformarsi in un proprietario terriero, dal momento che, per usare le parole del suo vecchio zeyda, il suo vecchio nonno, «un uomo senza terra non è nessuno». Attraverso queste divertentissime vicende, prende vita la Montreal ebraica con tutto il suo schmaltz1 e la sua gloria. Quello di Richler è un racconto pieno di brisket2 ben speziato e di squinzie franco-canadesi carine (e disponibili), un’ode quasi impareggiabile all’ambizione giovanile e alla disillusione.

Poco prima della sua morte, Richler pubblicò La versione di Barney, che è stata la degna conclusione di una lunga e brillante carriera ed è forse il suo miglior libro in assoluto. Si tratta della storia di un certo Barney Panofsky un uomo adorabilmente volgare che crea scompiglio in tutta Montreal (ma neppure Toronto la passa liscia) con la sua lingua da vipera, con le sue imprese da adultero seriale, con la sua casa di produzione televisiva strepitosamente di basso livello – la Totally Unnecessary Productions – e con la sua inclinazione per il lato della vita più pieno di carne, di fumo e di single-malt. A un certo punto, un Barney che sta invecchiando e ha problemi con l’intestino, la vescica, i polmoni e tutto il resto, si ripropone di correggere il proprio stile di vita: «Decido per l’ennesima volta di razionarmi i Montecristo, le tartine, il whisky di malto, quei deliziosi antipasti al midollo di manzo dell’Express, il cognac, le costolette di Moishe e tutto quello che mi fa male», scrive Richler con la voce di Barney. Qualora non aveste capito qualcuno di questi riferimenti, non abbiate paura: verranno tutti spiegati più avanti (e comunque l’antipasto dell’Express, in realtà, è al midollo di vitello, non al midollo di manzo).

La morte di Barney alla fine del libro (il Nostro non si era attenuto un granché al regime di vita salutare che si era riproposto) mi ha suggerito di prendere una risoluzione: mangerò, fumerò e berrò tutto quello che Barney Panofsky avrebbe voluto che io mangiassi, fumassi e bevessi. O morirò nel tentativo di farlo. A partire da oggi e per i prossimi cinque giorni io e il fotografo John Canning che mi accompagna in questo viaggio cammineremo quindi attraverso la Montreal contemporanea riempiendoci di cibi salati e di grassi, inalando ed esalando fumo e campionando whisky scozzesi delle Highlands e delle Lowlands. E, ogni volta che ci troveremo davanti a una sfida offerta dalla versione moderna del peccato di gola, ci porremo questa domanda: «Che cosa avrebbe fatto Barney Panofsky?». Così, mentre ricalcheremo le orme richleriane, Montreal potrà rivelarsi davanti ai nostri occhi in tutta la sua sottile bellezza. E potremo prendere nota delle cose migliori che questa città ha da offrirci.

***

Atterro a Montreal nel tardo pomeriggio. Il meteo? Fa freddo, come sempre. Ma non c’è quel tipo di vento che nel pieno dell’inverno ti fa procedere con la faccia voltata di lato. Appaiono alla vista prima il Mount Royal e poi l’ammasso di grattacieli di downtown. Non c’è alcunché di enigmatico nell’arrivare in questo posto. Non ho quella sensazione di disagio che avverto atterrando in una città inquieta come Mosca o a Francoforte, con il suo grigiore da contabili. Provo solo la gioia di rivedere una vecchia amica con cui sono in confidenza. Faccio il check-in all’Hotel Gault, un boutique hotel nuovo ed elegante che si trova nella Vecchia Montreal, e poi via subito verso L’Express per un pranzo tardivo. Io e John chiamiamo un taxi e ci facciamo portare al Plateau, che è considerato uno dei quartieri più à la page del Nord America. Nei tempi andati, il Plateau e le zone circostanti avevano ospitato diverse ondate di immigrati, inclusi tutti i Duddy Kravitz ebrei che dall’Europa orientale si erano riversati in Canada.

L’Express è un bistrot francese informale, affascinante e pieno di luce. E, a quanto pare, costituisce un punto di riferimento per almeno la metà degli abitanti di Montreal. Noi seguiamo l’esempio di Barney, concedendoci come antipasto un os à moelle & fleur de sel, ovvero un midollo al fior di sale. Ci arriva in tavola un piatto di ossa guarnite di foglioline tonde di cavoletto. Per prima cosa bisogna staccare dall’osso questi succulenti e burrosi bocconi di midollo bovino, poi bisogna adagiarli su un pezzo di pane tostato, bisogna cospargerli a piacere di fior di sale e bisogna incoronarli con una fogliolina di cavoletto. In bocca, la sensazione è paradisiaca: la morbidezza del midollo è contrastata dalla croccantezza del sale e la mente rimane sbigottita davanti al piacere provocato dal mangiare la vera essenza dell’animale. C’è qualcosa di quasi osceno in tutto questo. Ma, dopo che mi sono quasi commosso per il piacere, decidiamo di proseguire con le meravigliose rillettes L’Express, che sono una specie di pâté morbido di anatra e pollo perfetto per smaltire l’ebbrezza provocata dal midollo.

L’unico problema è che non è possibile fermarsi qui. E allora perché non condividere un boudin blanc, una salsiccia bianca di maiale e vitello che viene servita con uno stupefacente purè di patate carico di salsa di mele? «Non ho mai mangiato delle salsicce tanto saporite», mi dice John. «E neppure un purè così buono». Santodio, ha proprio ragione. Poi, per dessert, ecco dei biscotti accompagnati da un bicchiere di vin santo. Ci passa accanto un ragazzino biondo con gli occhiali tondi, un Harry Potter québécois. L’espressione sul suo faccino (che è simile a quella stampata sul volto più grande di suo padre) raffigura una sazietà un po’ affaticata ma felice. Capisco perfettamente come si sta sentendo. Benvenuti a L’Express. Benvenuti a Montreal.

Viva Barney è un libro di Christian Rocca e Gary Shteyngart appena pubblicato da Linkiesta Books. Sarà in libreria da fine maggio, ma è già disponibile qui.

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