Le linee rosse che l’Ucraina e il mondo libero non possono permettersi di superare

Com’era prevedibile, la controproposta europea per la pace in Ucraina non è stata neanche presa in considerazione dalla Russia. Yuri Ushakov, il principale consigliere di Vladimir Putin per la politica estera, l’ha liquidata dicendo che «non ci si adatta affatto», mentre il piano americano in 28 punti suggerito dal Cremlino, ricopiato da Steve Witkoff e approvato perentoriamente da Donald Trump con il solito sciocco ultimatum, sarebbe, a suo giudizio, «più accettabile». Nessuna sorpresa, Mosca si aspetta dal negoziato un cessate il fuoco congelato sui confini dell’invasione, il riconoscimento implicito delle conquiste territoriali e un’Ucraina più debole, meno armata e definitivamente fuori dalla Nato. Una lista dei sogni che l’Ucraina non può accettare per non compromettere la sua sovranità, anche se sa che senza gli Stati Uniti non potrà difendersi a lungo, né negoziare. La strada per la pace giusta è sempre più stretta.
Il problema del documento in 28 punti non è solo il contenuto, ma anche l’idea che trasmette al resto dell’Occidente. Gli Stati Uniti sono sempre più convinti che l’Ucraina non riuscirà a difendere le regioni orientali, soprattutto nel Donetsk, dove il fronte russo si muove lentamente ma in modo costante. E con la solita mentalità da piazzista, Trump pensa pragmaticamente al male minore: un piano per stabilizzare la situazione, non per correggerla.
Ma proprio il quadro militare da cui nasce quella diagnosi è più ambiguo di quanto appaia. L’avanzata russa nel Donetsk è costante, ma non irresistibile. Procede a un ritmo che porterebbe Mosca a impiegare oltre due anni per completare la conquista della regione, sempre che l’Ucraina non riceva nuove forniture e non rafforzi le sue linee difensive. Nel frattempo, città come Pokrovsk sono cadute o accerchiate, mentre le prossime fasi della campagna richiederebbero alla Russia di affrontare centri urbani molto più complessi rispetto ai villaggi conquistati negli ultimi mesi.
Come spiega un interessante approfondimento del Financial Times, lo scellerato piano di pace americano consegnerebbe alla Russia ciò che non è riuscita a ottenere in undici anni di guerra, soprattutto nel cosiddetto fortress belt, la cintura di città che protegge Slovjansk e Kramatorsk. Inoltre, prevedere che le aree cedute si trasformino in una zona cuscinetto demilitarizzata esporrebbe direttamente le città ucraine dell’interno, come Dnipro e Zaporižžja, a una futura offensiva che sarebbe nettamente più veloce della lentissima marcia, con tante retromarce, ritirate e controffensive, di questi quasi quattro anni di invasione.
Il guaio è anche semantico: il documento dei 28 punti introduce definizioni giuridiche su misura del Cremlino: chiamare quei territori «de facto russi» e non «sotto controllo russo» significa riconoscere implicitamente una sovranità che Mosca non è riuscita a ottenere con le armi. Un precedente destinato a pesare per decenni che secondo una analisi dell’European Council on Foreign Relations creerebbe due problemi geopolitici. Primo, se un’aggressione armata porta comunque a ottenere territori, significa che in Europa i confini possono essere modificati con la forza. Secondo, se l’Ucraina fosse costretta a un accordo sbilanciato, tutti i paesi che si trovano lungo il fronte orientale, Moldavia, Georgia, ma anche gli Stati baltici, capirebbero che l’Europa non è in grado di proteggerli davvero. Per questo, sostiene l’Ecfr, la posta in gioco non è solo la sopravvivenza dell’Ucraina come Stato sovrano: è la credibilità dell’intero ordine occidentale, fondato sull’idea che la forza militare non possa diventare un modo per cambiare i confini. Se salta questo principio, può saltare tutto il resto
A tutto questo si aggiunge la parte più inquietante del piano americano e meno discussa: la gestione dei beni russi congelati. Secondo il Financial Times, la bozza americana stravolge completamente l’impianto costruito in Europa negli ultimi due anni. Bruxelles sta lavorando a un maxi-prestito da 140 miliardi garantito dai profitti generati dai 300 miliardi di asset sovrani russi immobilizzati nelle banche occidentali, la maggior parte dei quali si trova nell’Eurozona.
Il piano americano cambierebbe tutto: i primi 100 miliardi verrebbero trasferiti in un fondo congiunto Stati Uniti–Ucraina, gestito da Washington e con ritorni economici per gli americani. Altri 100 dovrebbero metterli gli europei di tasca propria. E la quota residua finirebbe addirittura in un veicolo comune Stati Uniti–Russia, formalmente dedicato allo “sviluppo congiunto”, ma di fatto pensato per reintegrare Mosca nel circuito finanziario internazionale molto prima che paghi i danni di guerra.
Quindi oltre al danno, la beffa: l’Europa perderebbe l’unica leva strategica che è riuscita a costruire, la Russia otterrebbe un sollievo finanziario proprio mentre dovrebbe subire la massima pressione, e gli Stati Uniti trasformerebbero un regime di sanzioni in un meccanismo di investimento a loro vantaggio. Invece di chi aggredisce paga, chi aggredisce incassa.
La controproposta europea nasce esattamente da queste preoccupazioni: conserva la struttura americana ma rimuove gli elementi più rischiosi, iniziando dalla sequenza temporale: prima un cessate il fuoco verificabile, poi il negoziato territoriale. Non impone ritiri unilaterali, non accetta formulazioni che possano sembrare un riconoscimento dell’occupazione, non limita la futura adesione alla Nato, ricordando solo che il consenso oggi non c’è. E soprattutto insiste su due punti strategici: un esercito ucraino più grande di quanto previsto dagli Stati Uniti (800 mila uomini), e l’uso completo degli asset russi congelati per la ricostruzione.
Né Russia, né Ucraina vogliono cedere e gli Stati Uniti cercano già un nuovo compromesso. Rubio ha cominciato a definire il piano un documento «vivente», privo di scadenze rigide e aperto a modifiche, soprattutto sui punti più contestati. Si è parlato della possibilità di rimuovere del tutto il tetto all’esercito ucraino o di compensarlo con forniture di missili a lungo raggio, per rafforzare la deterrenza post-bellica. Anche la questione delle garanzie di sicurezza, inizialmente molto vaga, è in revisione: gli Stati Uniti hanno ammesso che servono impegni più solidi per evitare che la pace diventi un semplice intervallo tra due fasi del conflitto.
L’Ucraina dovrà cedere qualcosa, forse anche molto. Non otterrà il ritiro completo delle truppe russe, non avrà garanzie immediate sulla Nato e dovrà confrontarsi con pressioni crescenti da parte degli Stati Uniti, che vogliono evitare un conflitto prolungato e politicamente ingestibile. Ma ci sono linee rosse che Kyjiv e i suoi alleati considerano intoccabili: la sovranità, la sicurezza dell’Europa, e l’impossibilità di legittimare un’aggressione.
In questo spazio stretto, tra la necessità e il rischio, si gioca la trattativa però non fingiamo che il tempo sia neutrale: può giocare a sfavore dell’Ucraina se perde il sostegno occidentale, o a favore se lo mantiene. Perché la Russia non sta bene economicamente: la spesa militare è quasi triplicata dal 2021 al 2024, superando i 16 trilioni di rubli e puntando ai 20 nel 2025, livelli mai visti dall’epoca sovietica. Per finanziarla, il Cremlino ha iniziato a vendere oltre la metà delle proprie riserve auree, mentre il Fondo sovrano ha visto crollare del 55 per cento le componenti liquide, scese a circa 51 miliardi di dollari. Il rublo è instabile e la banca centrale continua ad alzare i tassi, con ricadute su famiglie e imprese. Intanto l’economia civile rallenta, la mobilitazione riduce la forza lavoro e Mosca dipende quasi solo da Cina e India per gas e petrolio, venduti a prezzi molto più bassi. Non è un collasso imminente, ma una pressione crescente che spiega perché il Cremlino guardi con interesse a un congelamento del conflitto. Non tenere conto di tutto questo sarebbe ingenuo e dannoso.
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