Dal pareggio delle regionali Meloni perde qualcosa in più

Nell’esito dell’ultima tornata delle elezioni regionali che si è tenuta ieri due sono i dati che mi colpiscono, apparentemente contraddittori. Il primo è l’ampiezza del divario tra vincitori e sconfitti, specialmente in Campania, dove ci si attendeva un risultato meno schiacciante e dove invece Roberto Fico ha preso il 60 per cento, contro il 35 di Edmondo Cirielli.
Il secondo è la bassissima affluenza, tra il 41 e il 44 per cento, ampiamente sotto la metà degli aventi diritto, che rende un po’ meno convincenti i discorsi trionfali alimentati dal primo dato. Ma se per il centrosinistra si tratta di una vittoria dimezzata, dalla bassa affluenza e dalle sconfitte precedenti, che hanno trasformato la desiderata spallata in un più modesto pareggio, per Meloni si tratta invece di due segnali che vanno nella stessa direzione, cui si potrebbe aggiungere anche il terzo proveniente dal Veneto, dove la schiacciante vittoria del candidato leghista porta al contro-sorpasso del partito di Matteo Salvini su Fratelli d’Italia, che alle europee era invece arrivato primo.
Forse ci sarebbe da farsi qualche domanda anche sulla frequenza con cui nelle elezioni regionali assistiamo a vittorie schiaccianti, da una parte e dall’altra, e su quanto questo sia un segno di buona salute del sistema, ma sarà per un’altra volta. Anche perché, purtroppo, abbiamo sintomi ben più gravi, a livello nazionale, della stessa patologia, come mostra la puntuale fioritura del dibattito sul cambiamento della legge elettorale, rilanciato ieri da Fratelli d’Italia (non per niente Giovanni Donzelli dice al Corriere della sera che «quello delle regioni è il modello migliore»).
A conferma della pluridecennale tradizione che vede ogni maggioranza tentare di aggiustarsi le regole del gioco prima delle elezioni successive, ma anche di una certa preoccupazione, a Palazzo Chigi, per la crescente disaffezione dell’elettorato.
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