I Mowgli d’Abruzzo, le maestre molisane e lo zoo del moralismo urbano
Io lo so che voi a quelli che fanno i loro bisogni nel bosco accovacciati come Mowgli nella giungla non ci avete mai pensato finché non vi hanno detto che in un bosco abruzzese viveva una famiglia di picchiatelli australiani, ma io invece ci penso da anni ognuna delle volte in cui mi sveglio di notte per fare pipì (succede raramente, grazie al cielo).
Ci sono delle fortune che do per scontate. Quasi tutte. Non riesco a immaginarmi come quella in fin di vita (ho una forma tutta particolare di ipocondria, che non prevede che stia mai male sul serio), come quella in miseria (sono stata fortunata, ogni volta che sono stata senza soldi è durato poco), come quella che lava i panni al fiume: sono così mitomane che penso che se fossi nata tre secoli prima avrei avuto della servitù che andava a lavare le crinoline.
Ma ci sono due fortune di fronte alle quali sembro quelle che fanno yoga ed esercizi di gratitudine. Una è l’aria condizionata: ogni anno, io passo cinque mesi pensando «oddio ma ci pensi se avessi avuto le caldane in anni in cui nelle case italiane non c’era l’aria condizionata?». Un’altra è, appunto, la pipì di notte, dopo la quale non dormo più. Non dormo più perché mi metto a pensare: e se vivessi in un secolo in cui non ho un bagno in camera e l’acqua corrente e le fognature? E se dovessi attraversare casa per fare pipì e a quel punto mi svegliassi e fosse impossibile riaddormentarmi? E se vivessi in una qualunque epoca precedente, una in cui dovevi farla in un secchio e neanche potevi raccontarlo quando t’invitavano ai podcast?
Ora, sorvoliamo sulla forma specifica di stupidità grazie alla quale io penso che non mi riaddormenterei mai in una vita meno comoda di questa, e grazie a quel pensiero mi agito e non mi riaddormento in questa, e parliamo del vero problema della famiglia australiana naturalizzata abruzzese: ma uno perché rinuncia alle comodità?
Per me è inconcepibile: ogni anno passo cinque mesi a litigare con gente contraria all’aria condizionata. Se c’è una versione più comoda della vita che abbiamo, che senso ha rifiutarla?
Lasciate che vi parli delle scuole medie. Era la metà degli anni Ottanta, e io avevo freddo, perché faceva freddo. Quegli inverni padani lì li abbiamo rimossi: io la mattina non volevo uscire dalle coperte per il freddo, mica per la scuola (l’occidente non aveva ancora commercializzato il concetto di «ansia»).
Quindi, quando uscì “Mammina cara”, il film in cui Joan Crawford picchiava la figlia adottiva con le grucce di fil di ferro del lavasecco, tutte memorizzarono come massimo trauma quella scena. Io trovavo molto più feroce quella in cui Faye Dunaway, che interpretava la Crawford, si lavava la faccia col ghiaccio. Quaranta e più anni dopo la capisco: avrà avuto le caldane. Pure io chiedo sempre al parrucchiere l’acqua fredda. Mica è una tortura: è un gusto. Ma allora mi sembrava una punizione, magari dagli esiti benefici, magari avrà avuto una pelle bellissima, ma per me tutto ciò che è scomodo e sgradevole era inaccettabile. Lo è ancora.
Tutto il resto del dibattito sulla famiglia nel bosco mi pare inutile, perché è persino più del solito un esercizio di slogan delle curve. Da una parte quelli che «eh certo, i figli ai gay li togliete, ma a questi che non li mandano a scuola li volete lasciare». Dall’altra quelli che «i figli sono dei genitori e non abbiamo diritto di imporre loro scelte educative». Da una parte quelli che «e allora i genitori che mettono i figli sui social». Dall’altra quelli che «i bambini devono socializzare, non vi ricordate il trauma del lockdown». (La prossima volta che voglio spaventarmi e restare insonne, penso che potevo vivere in un secolo con preoccupazioni più serie e meno da perdigiorno satolli di «cinque anni fa siamo stati qualche mese sul divano col wifi»).
Da una parte quelli che anche Jung viveva senza elettricità e con l’acqua del pozzo (anno di nascita di Carl Gustav Jung: 1875). Dall’altra quelli che i bambini non scolarizzati poi restano ignoranti (quelli scolarizzati, invece). Da una parte quelli che voi volete ridurre quei poveri bambini come i vostri, rimbecilliti dai cellulari e dalla tv. Dall’altra quelli che hanno acqua corrente ed elettricità, ma i figli s’illudono di preservarli dalla modernità corruttrice con scuole steineriane e giocattoli di legno, e tuttavia se li ritrovano imbecilli comunque.
Su Instagram c’è l’account d’una coppia di picchiatelli che ha riadattato a camper di lusso uno scuolabus, l’ha parcheggiato a Manhattan, e racconta tutta felice di esser riuscita a vivere a New York senza pagarne i carissimi affitti. Loro però non hanno figli: hanno due cani, e come possa della gente sana di mente decidere di vivere in un pullman con due cani non mi è chiarissimo, ma insomma ognuno vada dove vuole andare, diceva Guccini, aggiungendo un invito a «non raccontare a me che cos’è la libertà». Vale lo stesso se ci son di mezzo dei minorenni?
Qualcuno si ricorda di “L’educazione”? Lo pubblicò Feltrinelli nel 2018, lo aveva scritto Tara Westover, il cui padre (mormone) non aveva mandato lei e i sei fratelli a scuola ritenendola «un trucco per allontanare i bambini da Dio», che è un’affermazione non so se più o meno lunare di «non abbiamo l’acqua corrente perché le tubature portano le microplastiche».
Il bagno i Westover dell’Idaho ce l’avevano, me lo ricordo perché mi ricordo che uno dei fratelli di Tara le infilava la testa nel cesso cercando d’affogarla: i signori Westover le dicevano di smetterla di inventarsi cose. Con lo spirito pratico di chi non si balocca coi microtraumi, Tara iniziò a pulire il gabinetto tutte le mattine, almeno limitava i danni: se non riesci a evitare che tentino d’affogarti, puoi far sì che il tentativo avvenga in oggetto non lurido.
Come sempre, i romanzi sono ben più utili del giornalismo a capire il mondo: l’infanzia di Tara fa sembrare civilizzata quella degli australiani d’Abruzzo, che come lei non hanno vaccinazioni o iscrizioni a scuola, ma almeno esistono per l’anagrafe. Il padre di Westover, pensando che il governo volesse rubargli i figli, non denunciò la nascita degli ultimi quattro, e Tara non sa quindi esattamente quando sia il suo compleanno.
Gli australiani d’Abruzzo almeno per l’avvelenamento da funghi sono stati portati al pronto soccorso. Tara Westover stette un mese a bocca aperta perché i genitori, contrari alle medicine, dicevano che il sole le avrebbe curato la tonsillite.
Forse il fatto che non solo sia sopravvissuta all’assenza di medicine moderne ma che, senza una scolarizzazione minima, sia riuscita a ottenere un dottorato di ricerca a Cambridge, dopo aver fatto l’università ad Harvard, non ci dice solo che ormai un PhD non si nega a nessuno, ma anche che le regole non esistono: esistono solo le eccezioni.
Puoi crescere con tutti i vantaggi della modernità, e venire su comunque una schifezza. Puoi crescere in un inferno, e uscirne da brillante intellettuale. Non tutto è cultura, qualcosa è natura, e c’entra parecchissimo la non prevedibile botta di culo di nascere con doti eccezionali d’intelletto ma pure di carattere.
A quanto ho capito anche il padre che ha portato i figli a vivere in Abruzzo pensa d’avere doti di sensitivo, come il padre di Westover: sempre detto che quelli che dicono «io me lo sentivo» sono l’umanità più picchiatella di tutte. Il signor Westover accumulava cibarie perché sarebbe arrivata l’Fbi a cercare di catturarli, e il 2000 avrebbe portato il secondo avvento di Cristo. Quelle storie americanissime che nei casi peggiori finiscono in Waco, e nei migliori in una figlia che miracolosamente accumula libri invece che scatolette.
Il punto che interessava sviluppare a Tara Westover – il cui “L’educazione” uscì negli stessi mesi del memoir di rivalsa rurale d’un certo J.D. Vance – era la distanza tra le realtà rurali e la metropoli (i frasifattisti direbbero: la sinistra ztl), non meno attuale oggi che nel 2018. Certo che l’Idaho dov’è cresciuta lei e New York non hanno nulla in comune, dice Tara Westover, ma non c’è niente di più provinciale che pensare che il mondo sia tutto uguale a quello che conosci tu.
Ci ripensavo quando ho letto che ai bambini angloabruzzaustraliani è stata offerta, come via d’uscita dall’essere Mowgli cui nella giungla non hanno insegnato a leggere, una maestra molisana. Pensa con che dizione potrà mai insegnar loro l’italiano, ho pensato io, che vivo in un altro mondo e sono abbastanza stolida da pensare sia l’unico. Con quella condiscendenza che Tara Westover notava venisse dalle realtà urbane. Come non avessi Facebook, e non leggessi da anni gruppi di mamme paranoiche che pensano la scuola rovinerà i loro figli, e si scambiano consigli su come evitare che venga loro assegnato un codice fiscale, che è il modo in cui ritengono che lo Stato li rapisca e li allontani dalla purezza.
Credevo di stare sui social per vedere un mondo che non sarebbe altrimenti entrato nella mia vita e non essere una condiscendente abitante delle metropoli che non si rende conto che questa gente in democrazia ha lo stesso peso di quella col PhD, e invece niente: gli australiani d’Abruzzo mi ricordano – e non solo a me – che, per quanto il telefono ce lo proponga ogni giorno più volte al giorno, il diverso da noi lo guardiamo sempre come fossimo allo zoo.
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