Trentino Unexpected: che cosa resta oltre le immagini da cartolina

Nell’epoca in cui ogni luogo esiste solo quando è instagrammabile, quando i territori vengono ridotti a fondali luminosi che attirano post come falene, la fotografia corre un rischio: diventare decorazione. Ma può essere molto di più. Può mostrare ciò che di solito ignoriamo, spostare l’attenzione sui dettagli, sulle vite, sugli angoli che non finiscono nelle brochure patinate. È questo il punto da cui parte Trentino Unexpected, la mostra che dal 22 novembre al 6 gennaio porta al Mudec Photo di Milano più di ottanta immagini firmate da cinque autori di fama internazionale: Simone Bramante, Gabriele Micalizzi, Roselena Ramistella, Massimo Sestini e Newsha Tavakolian, chiamati a raccontare il Trentino non come una cartolina, ma come un’esperienza.

Un racconto che nasce da un’intuizione chiara, sintetizzata bene da Maurizio Rossini, amministratore di Trentino marketing: «Quello che di solito si conosce dei territori sono le loro cartoline, con questo progetto siamo voluti uscire da questo concetto». Il territorio del Trentino, celebre per i suoi paesaggi iconici, rischia spesso di essere ricordato solo attraverso le sue immagini più note: laghi cristallini, vigneti ordinati, cime che sembrano scolpite. Bellezze autentiche, certo, ma non sufficienti a restituire la complessità e la profondità dell’esperienza che questo territorio sa offrire.
La mostra curata da Denis Curti sceglie invece di mostrare ciò che resta fuori dall’inquadratura convenzionale. «Con una macchina fotografica da sola non si fa nulla, servono delle storie dietro», ricorda il curatore. E infatti qui le storie non mancano. Il percorso espositivo – nato dall’omonimo volume fotografico edito da Gribaudo e approdato al Mudec dopo il successo della prima tappa al Mart di Rovereto – è costruito come un viaggio in cinque movimenti: confini, verticalità, autenticità, cura e impronta.

Non si tratta di mere sezioni, ma di vere e proprie prospettive. Confini è lo spazio dove il territorio si sfilaccia e si apre, da un punto di vista sia geografico sia esistenziale. Verticalità si riferisce invece alla montagna come tensione, fatica e vertigine; autenticità attraversa le scelte quotidiane di chi decide di restare; cura mostra i piccoli gesti che tengono insieme una comunità. Impronta, infine, racconta ciò che rimane: l’eredità materiale e immateriale che passa di generazione in generazione.
Ogni fotografo muove il proprio sguardo in modo diverso, costruendo una polifonia visiva che non celebra il territorio, ma lo interroga. Le immagini di Simone Bramante, ad esempio, si muovono in quella zona sottile dove l’osservazione si trasforma in un racconto personale: «Ho voluto valorizzare l’osservazione e l’esperienza umana», dice il fotografo. Gabriele Micalizzi, che ha attraversato i fronti di mezzo mondo, porta nel Trentino la sua grammatica tagliente da fotoreporter; Roselena Ramistella segue fili invisibili tra persone e luoghi; Massimo Sestini esplora dall’alto, come se il territorio potesse essere letto come una mappa emotiva; Newsha Tavakolian – con il suo sguardo narrativo e intimo – cerca la vibrazione dietro le superfici.
Ne emerge un Trentino meno costruito e più vissuto, un luogo che non si limita ad essere uno scenario. Un territorio in cui il paesaggio entra nella vita delle persone e viceversa. Non a caso Curti parla di «un magnete che sembra attrarre le persone, invitarle a non partire», che esula dalla retorica dell’idillio rurale, riscoprendo invece la concretezza di un senso di appartenenza ancora tangibile.

Portare tutto questo a Milano, al Mudec, cambia il gioco. Nel passaggio da Rovereto alla capitale culturale italiana, il progetto abbandona ogni residuo localistico e diventa un dialogo con una città che vive di identità sovrapposte. Qui, il Trentino smette di essere un “altrove” e diventa uno specchio, un territorio che – pur lontano dagli stereotipi – parla di comunità, radici, trasformazioni sociali: ossessioni molto milanesi.
Il risultato è una mostra che non chiede allo spettatore di contemplare, ma di abbassare lo sguardo dalle cime verso i dettagli: la trama dei boschi, le mani dei lavoratori, gli spazi liminali, le distanze che uniscono, lontano dal marketing turistico e dalle cartoline. Questa mostra ricorda a spettatrici e spettatori che ogni immagine può essere ancora una scoperta, e che esistono geografie che resistono allo sguardo veloce, dove l’imprevisto – l’unexpected – è ancora qualcosa da scoprire.
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