L’Europa non può abbandonare gli ungheresi che lottano per i propri diritti

In Ungheria, marciare per la libertà è diventato un reato. Con l’ormai famigerata modifica della Costituzione, il governo di Viktor Orbán ha formalmente trasformato la partecipazione ai Pride in un illecito punibile con sanzioni pecuniarie e suscettibile di un controllo repressivo, come il riconoscimento facciale e la schedatura dei manifestanti.
Quando uno Stato vieta il Pride, non sta solo colpendo una manifestazione: criminalizza identità, nega libertà, riscrive i confini della cittadinanza nell’accezione del diritto di ciascuno ad esserci, ad esistere come soggetto, come individuo con le proprie caratteristiche, scelte e desideri.
Il Pécs Pride previsto per il 4 ottobre 2025 è stato vietato, come già era avvenuto con quello di Budapest dello scorso giugno, dove il divieto venne prima aggirato dalla coraggiosa decisione del sindaco della Capitale, Gergely Karácsony, che lo trasformò in un evento municipale e poi travolto dalla partecipazione di massa di cittadini giunti da ogni parte d’Europa.
Non si tratta però solo di un attacco alla comunità Lgbtq+: ciò che è in corso è un attacco sistematico alla libertà, alla democrazia e all’idea stessa di stato di diritto. Il governo ungherese non nasconde più l’ambizione di costruire un assetto compiutamente illiberale: riduce gli spazi di dissenso, seleziona chi può essere visibile nello spazio pubblico, colpisce le soggettività più esposte e più libere.
Colpire i Pride significa colpire l’idea che si possa essere diversi, visibili, irriducibili al conformismo eterosessista e autoritario. Ogni divieto, ogni multa, ogni schedatura non è che un tassello della medesima strategia: produrre paura, disciplinare i corpi, ridurre la politica a obbedienza. È così che si costruisce uno Stato illiberale: si inizia dalle minoranze, si normalizza la censura, si istituzionalizza la sorveglianza, si subordina la legittimità dei diritti alle autorità dello Stato.
Il pretesto ricorrente è quello della “protezione dei minori”: una formula usata per mascherare una repressione violenta e deliberata, che nulla ha a che vedere con la tutela dell’infanzia e tutto con il desiderio di controllo. Perché nessun bambino è messo in pericolo dall’esistenza libera di persone lesbiche, gay, bisessuali, trans, intersex o non binarie. Ma è in pericolo l’intero assetto democratico ogni volta che una marcia viene vietata, ogni volta che la libertà di espressione viene ristretta, ogni volta che il dissenso viene trattato come provocazione.
In Ungheria oggi non si può più manifestare, non si può più essere sé stessi in pubblico, non si può più rivendicare la propria esistenza senza correre il rischio di repressione amministrativa o violenza istituzionale. È questa la vera ideologia che si afferma: quella dell’ordine imposto, dell’identità normata, della società sorvegliata. Un’ideologia che ha una precisa grammatica politica e un nome proprio: autoritarismo.
Non è un’emergenza improvvisa. È un processo che da anni Orbán porta avanti con metodo: prima la stampa, poi l’università, poi le Ong, ora le soggettività Lgbtq+. Si testa la soglia di tolleranza, si introduce il linguaggio della paura per rafforzare l’apparato del potere, si occupano le istituzioni per ridurre gli anticorpi democratici. È un modello, e come ogni modello può essere esportato.
L’Ungheria è oggi il laboratorio di una nuova destra europea, sorella delle peggiori destre mondiali sulla direttrice tra Cremlino e Casa Bianca: una destra che non si limita a vincere le elezioni per affermare i propri cosiddetti valori, ma per estromettere quelli altrui dalle protezioni legali, per svuotare la democrazia delle garanzie liberali e per trasformarla in un dispositivo di persecuzione di massa delle minoranze.
E l’Ue? Le sue istituzioni prendono tempo, dichiarano «preoccupazione», ma continuano a finanziare Budapest, a evitare sanzioni incisive, a non mettere in atto le misure previste dai trattati per la tutela dello stato di diritto. Questo silenzio non è neutrale e non è senza conseguenze: fa il gioco di Orbán e compromette la tutela delle libertà fondamentali all’interno del territorio dell’Unione.
L’Europa deve scegliere da che parte stare. Difendere il Pride oggi significa difendere l’essenza del progetto europeo: libertà, autodeterminazione, spazio pubblico aperto al confronto e alla pluralità. E invece Bruxelles continua a barattare il rispetto dei diritti fondamentali con la stabilità politica, che Orbán non compromette solo offrendo sponda alle aggressioni putiniane, ma esportandone il modello dentro i confini dell’Ue.
Non basta indignarsi: servono atti concreti, procedure di infrazione, tagli ai fondi strutturali, sostegno politico e materiale a chi, dentro e fuori l’Ungheria, resiste. Perché resistere, oggi in Ungheria, significa disobbedire con gli strumenti della nonviolenza. E questa disobbedienza civile è un atto politico necessario, l’unico linguaggio ancora in grado di affermare una soggettività non addomesticata.
Marciare a Pécs, come a Budapest, non è folklore né provocazione: è un gesto radicale di esercizio democratico. Per questo occorre continuare a esserci. La libertà si difende esercitandola, e ogni corpo che si unisce alla marcia è una frattura aperta nella narrazione autoritaria. Più persone marciano, meno lo Stato ungherese può isolarle. Più visibilità si ottiene, meno la paura può funzionare. Non possiamo lasciare sole le persone che oggi lottano in Ungheria per i propri diritti: sono loro ad essere in prima linea nella difesa della democrazia. Sono loro il bersaglio, ma anche la resistenza. E il nostro posto è con loro, fisicamente e politicamente.
Il Pécs Pride deve marciare. Deve marciare perché il futuro non può essere negoziato con la paura. Deve marciare perché la libertà, se non viene esercitata, si perde. Deve marciare perché ogni divieto è una sfida, e ogni corpo libero è una risposta. Non c’è legge d’odio che possa fermare un’idea di giustizia. E non c’è Europa che possa dirsi tale se resta a guardare mentre l’autoritarismo avanza dentro i suoi confini.
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