L’impatto dell’AI, Frey: “Senza talenti e innovazione New York farà la fine di Detroit e Pittsburgh”

L’OPINIONE DELL’ECONOMISTA
L’impatto dell’AI, Frey: “Senza talenti e innovazione New York farà la fine di Detroit e Pittsburgh”
L’intelligenza artificiale minaccia le grandi capitali dei servizi. New York potrebbe fare la fine di città come Detroit e Pittsburgh, messe in crisi dalla rivoluzione tecnologica degli anni ’70. Secondo l’economista Carl Benedikt Frey la soluzione passa da politiche che incentivino innovazione, mobilità dei talenti e formazione.

Le città fondate sull’economia dei servizi rischiano di essere travolte dalla disruption dell’intelligenza artificiale, replicando il destino di Pittsburgh e Detroit, simboli di un’economia industriale che non ha saputo governare il cambiamento. L’avvertimento arriva da una delle voci più autorevoli nel dibattito sul futuro del lavoro, l’economista svedese Carl Benedikt Frey, che dirige il Future of Work Programme all’Università di Oxford. Secondo Frey, siamo ancora in tempo per evitare un destino simile, a patto di intervenire subito puntando su talento, innovazione e politiche urbane efficaci.
Noto al grande pubblico per un influente studio del 2013 scritto con Michael Osborne, in cui si prevedeva che il 47% dei posti di lavoro negli Stati Uniti fosse ad alto rischio di automazione, Frey ha progressivamente arricchito la sua analisi. A quella visione, da alcuni interpretata in chiave catastrofista, ha fatto seguire una riflessione più ampia che, senza negare i rischi, sottolinea le possibilità offerte da una governance pubblica capace di orientare il cambiamento tecnologico. Un tema che approfondisce anche nel suo volume di prossima pubblicazione, “How Progress Ends: Technology, Innovation and the Fate of Nations”.
In un editoriale recentemente pubblicato sul New York Times, Frey vede nella crescente disoccupazione dei neolaureati il primo segnale di un disagio più profondo. E la storia della deindustrializzazione offre una prospettiva preziosa per comprendere la sfida, un monito su come l’incapacità di agire possa portare a un declino altrimenti evitabile.
L’eco della ruggine nelle capitali dei servizi
Per decifrare il futuro bisogna rileggere il passato. Pittsburgh negli anni Sessanta era la capitale mondiale dell’acciaio, ma dietro le quinte una trasformazione tecnologica stava già ridisegnando il settore. I mini-mulini elettrici, più agili e con molta meno manodopera, iniziavano a diffondersi mentre i produttori asiatici, con tecnologie più raffinate, erodevano il dominio americano.
Detroit, cuore dell’industria automobilistica, vide l’introduzione di robotica e logistica avanzata spostare la produzione verso impianti più piccoli, efficienti e lontani dai grandi complessi sindacalizzati, fino al trasferimento oltreoceano. La conseguenza fu drammatica: una perdita di circa il 90% dei posti di lavoro nel settore manifatturiero della città tra il 1950 e il 2011.
Fenomeni questi che non avvennero da un giorno all’altro. Il vero problema fu l’incapacità di riconoscere i segnali, continuando a puntare su un modello industriale obsoleto senza coltivare nuove economie.
Oggi le grandi capitali dei servizi, da San Francisco a New York, si percepiscono immuni, forti di un’economia diversificata. Questa convinzione – dice Frey – rischia di essere un’illusione. L’intelligenza artificiale generativa è una tecnologia pervasiva, capace di automatizzare compiti oggi svolti da analisti, programmatori, consulenti finanziari e professionisti. Secondo Frey, a New York circa il 35% della forza lavoro è impiegata in settori ad alta esposizione, una quota superiore a quella che l’acciaio o l’automotive raggiunsero mai nelle rispettive capitali.
La delocalizzazione del lavoro intellettuale
Sappiamo tutti che l’intelligenza artificiale è ancora imperfetta. Ma anche se non è ancora in grado di sostituire i lavoratori, può già avere un impatto profondo sull’economia e la società. È sufficiente che abbassi i salari o renda più economico svolgere il lavoro intellettuale in altri luoghi. Se un chatbot può assistere in attività di ricerca legale o analisi di mercato, le aziende potrebbero non aver più bisogno di tanti giovani professionisti a Manhattan. Questi ruoli, come i posti di lavoro manifatturieri degli anni Settanta, potrebbero essere trasferiti oltreoceano.
Strumenti come GitHub Copilot per i programmatori o i software di scrittura assistita permettono a lavoratori meno esperti di svolgere compiti prima riservati a specialisti. Quando il luogo di lavoro e l’esperienza contano meno, gli alti stipendi delle metropoli spingono le aziende a spostarsi in mercati più convenienti, dando il via a una vera e propria fuga dei talenti digitali.
Imparare dal passato: il bivio tra Detroit e Boston
La lezione della deindustrializzazione è che il declino non è inevitabile. Ma la capacità di reinventarsi è fondamentale. Detroit e lo stato del Michigan riversarono per decenni sussidi e agevolazioni fiscali nelle “Big Three” dell’auto, senza riuscire a fermarne il lento declino. Hanno fallito nel coltivare nuove industrie mentre i loro settori tradizionali svanivano.
Boston, al contrario, ha seguito un percorso diverso, reinventandosi più volte: da centro marittimo a polo manifatturiero, fino a diventare un epicentro dell’economia tecnologica e finanziaria. Ogni transizione si è basata sulla capacità di attrarre giovani talenti e di stimolare l’innovazione, facendo dell’istruzione e della ricerca il motore della sua continua rinascita. L’innovazione germoglia in ambienti che coltivano l’interazione diretta e la sperimentazione, attività che storicamente sono state il cuore pulsante delle aree urbane.
Costruire le fondamenta per la prosperità futura
Le città – sostiene Frey – devono evitare di sovvenzionare le industrie senza futuro e concentrarsi sulla creazione di un terreno fertile per nuove realtà. Questo significa investire in tutto ciò che attrae e trattiene talenti: spazi pubblici, trasporti rapidi, scuole di alto livello, musei e teatri. Significa anche facilitare la mobilità professionale. Quando il Michigan, nel 1985, rafforzò le clausole di non concorrenza, il flusso di lavoratori verso le industrie emergenti rallentò. La California fece l’opposto, e permise la nascita di un ecosistema dinamico come la Silicon Valley.
La posta in gioco è alta. Frey cita l’economista Enrico Moretti, che ha calcolato che se ogni posto di lavoro manifatturiero sostiene circa 1,6 posti nell’indotto, ogni ruolo qualificato nel settore tecnologico ne sostiene ben 5. Una perdita anche contenuta di questi posti di lavoro può avere impatti molto ampi sull’intera comunità. Le politiche pubbliche devono anticipare questi rischi, usando l’innovazione come motore di sviluppo e non come semplice strumento di efficienza. Solo così le città potranno evitare di ripetere gli errori del passato e scrivere il prossimo capitolo della prosperità urbana.
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