L’ombra cinese sul Pacifico: tra basi militari, diplomazia e narrativa strategica

di Giuseppe Gagliano –
Nel cuore del Pacifico, dove piccoli Stati insulari si barcamenano tra le promesse economiche di Pechino e le pressioni strategiche di Washington, si consuma una partita silenziosa ma di portata globale. La recente smentita dell’ambasciata cinese nelle Figi riguardo alle presunte intenzioni di costruire basi militari nella regione non è che l’ultimo atto di una lunga sequenza di mosse e contromosse in un contesto già segnato da una crescente militarizzazione.
Pechino, consapevole della sensibilità delle opinioni pubbliche locali e del sospetto nutrito da Australia e Stati Uniti, ha affinato una strategia che privilegia la gradualità: invii di poliziotti nelle Isole Salomone, presenza diplomatica rafforzata a Kiribati e Vanuatu, investimenti infrastrutturali a doppio uso (civile e militare) nelle Figi. Ogni passo viene ufficialmente presentato come cooperazione allo sviluppo o partenariato di sicurezza, ma analisti occidentali denunciano un disegno più ampio volto a trasformare queste isole in nodi di una rete capace di supportare, in caso di crisi, proiezioni militari cinesi.
L’interesse di Pechino per il Pacifico non è nuovo, ma negli ultimi dieci anni si è intensificato parallelamente all’espansione della sua flotta e alla sua volontà di erodere l’egemonia statunitense in Asia-Pacifico. A questo si aggiunge la logica economica: accesso privilegiato a stock ittici, legname e minerali critici, indispensabili per l’industria tecnologica cinese.
Washington non è rimasta immobile. Già nel 2018 aveva bloccato un tentativo cinese di riqualificare una base navale in Papua Nuova Guinea e una nelle stesse Figi, grazie a un’offensiva diplomatica che ha visto Canberra giocare il ruolo di “poliziotto regionale”. Nel 2022, la firma di un patto di sicurezza tra Pechino e le Isole Salomone ha spinto il Dipartimento di Stato americano a lanciare un avvertimento senza mezzi termini: la costruzione di una base militare permanente cinese sarebbe considerata una minaccia strategica e avrebbe una risposta immediata.
Oggi, mentre la Cina mostra i muscoli con test di missili balistici che sorvolano le Figi e le altre isole, il vicesegretario di Stato americano Kurt Campbell ha sollecitato l’amministrazione Trump a mantenere alta la vigilanza. Le piccole isole del Pacifico, spesso marginali sulle mappe geopolitiche, rischiano di diventare pedine in un confronto tra grandi potenze, sacrificando la propria autonomia decisionale.
La Cina insiste sul rispetto reciproco della sovranità e nega qualsiasi piano di proiezione militare nel Pacifico. Tuttavia, Pechino non ha bisogno di basi formali per influenzare la regione: può contare su infrastrutture civili che all’occorrenza possono essere militarizzate, su porti modernizzati da società cinesi e su una presenza capillare di polizia “a supporto della sicurezza interna” nei Paesi più fragili.
Il Pacifico dunque diventa laboratorio di una nuova forma di confronto globale: una guerra di posizionamento fatta più di promesse economiche e narrative strategiche che di invasione e conquiste territoriali. In questo contesto, la capacità degli Stati insulari di mantenere una politica estera autonoma sarà messa a dura prova.
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