Trump usa la guardia nazionale come prova generale per le elezioni

Ottobre 8, 2025 - 09:00
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Trump usa la guardia nazionale come prova generale per le elezioni

La Guardia nazionale è una istituzione degli Stati Uniti che in Italia conosciamo poco. Non appare nelle serie tv americane e i corrispondenti italiani, quei pochi rimasti, non la citano quasi mai. È una forza a metà tra polizia ed esercito al servizio dei governatori degli Stati americani: può intervenire in disastri naturali, rivolte, emergenze. Ma in questi mesi Donald Trump ne ha fatto uno strumento politico personale, ordinandone l’impiego in Stati che non lo vogliono, contro autorità locali che gli si oppongono. Il suo scopo non è solo mostrare forza, ma mettere alla prova i confini del potere presidenziale, spingendo il sistema americano verso un terreno inesplorato: fino a che punto il presidente può agire contro la volontà degli Stati senza infrangere apertamente la Costituzione?

L’Oregon è diventato l’ultimo esperimento di questo laboratorio politico. A Portland, Trump ha giustificato l’invio della Guardia Nazionale come risposta alle manifestazioni contro le politiche migratorie del governo, organizzate davanti al principale centro di detenzione dell’agenzia federale per l’immigrazione (Ice). Le proteste erano in gran parte pacifiche, ma sono bastate per costruire la solita narrazione trumpiana di una «violenza incontrollata» e della necessità di proteggere le strutture federali da presunti «attacchi dei radicali di sinistra». La Casa Bianca ha presentato l’operazione come difesa della legalità; in realtà, era una dimostrazione di forza in un territorio ostile, utile a testare la capacità del presidente di usare la Guardia anche quando i governatori rifiutano di collaborare. 

La giudice federale Karin Immergut, nominata dallo stesso Trump nel 2018, durante il suo primo mandato, ha bloccato due volte in quarantotto ore i suoi ordini di dispiegamento. Meno di un giorno dopo la prima ingiunzione, Trump ha tentato un aggiramento: ha ordinato a trecento membri della Guardia Nazionale della California di spostarsi in Oregon per «sostenere» (qualsiasi cosa voglia dire) gli agenti federali dell’immigrazione. I primi cento erano già arrivati a Portland quando Immergut ha firmato una seconda decisione per bloccare anche quella missione. Gavin Newsom, governatore della California, ha denunciato un abuso di «legge e potere»; la governatrice dell’Oregon, Tina Kotek, ha parlato di «atto di provocazione».

Il punto non è solo giuridico: è politico e costituzionale. Trump sta usando la legge come campo di battaglia per ridefinire i rapporti di forza fra governo federale e Stati. A giugno, Trump aveva inviato in California quattromila membri della Guardia e settecento Marines a Los Angeles per ripristinare l’ordine durante le proteste contro le retate dell’Ice. Anche in quel caso, il giudice federale Charles Breyer aveva definito l’operazione illegittima, ricordando che la Posse Comitatus Act vieta all’esercito di svolgere funzioni di polizia. Trump ha risposto a suo modo, dispiegando truppe per contrastare un generico «aumento della criminalità» a Washington, D.C., dove ha controllo diretto sulla Guardia Nazionale, 

L’Oregon, però, ci ha mostrato un salto di qualità nell’azione di Trump. Il presidente degli Stati Uniti non ha ignorato i governatori (lo fa spesso), ma ha superato uno dei pilastri del federalismo americano: il principio secondo cui ogni Stato controlla le proprie forze della Guardia Nazionale. Nella logica costituzionale voluta dai padri fondatori americani le forze di uno Stato non possono operare in un altro senza l’autorizzazione dei rispettivi governatori. Dal Pentagono hanno cercato di minimizzare, parlando di un semplice riposizionamento di personale, come fossero semplici impiegati e non agenti. 

Diversi analisti americani hanno visto qualcosa di più di un semplice test sui limiti della costituzione americana. Trump starebbe agendo in questo modo per vedere la reazione del sistema in caso di una crisi post-elettorale nel 2026; e secondo alcuni anche nel 2028 (anche se il ventiduesimo emendamento impedirebbe a Trump di correre per il terzo mandato). Una sorta di prova generale negli Stati chiave in cui potrebbero verificarsi scontri, contestazioni e accuse di brogli durante le elezioni di midterm.

Così il dispiegamento della Guardia Nazionale non sarebbe più una novità bizzarra, ma il solito strumento nelle mani del presidente degli Stati Uniti che si autolegittima come garante dell’ordine nazionale. Ogni intervento di queste settimane serve a creare precedenti, a rendere plausibile ciò che fino a poco tempo fa sarebbe apparso inaccettabile: che un presidente possa usare i militari contro gli Stati che lo contraddicono. Il messaggio politico è che l’ordine dipende da lui, e che la democrazia americana, nel momento di tensione, può essere amministrata attraverso la paura.

Nelle ultime settimane, diversi Stati hanno reagito coordinandosi sul piano legale. California, Oregon e Illinois hanno presentato ricorsi congiunti per bloccare le future federalizzazioni della Guardia. I procuratori generali democratici stanno valutando un’azione costituzionale collettiva davanti alla Corte Suprema, con l’obiettivo di chiarire in modo definitivo se e quando un presidente possa inviare truppe senza il consenso dei governatori. Viceversa, alcuni Stati guidati dai repubblicani, come il Texas e il Mississippi, hanno invece dichiarato la loro disponibilità a mettere a disposizione le proprie unità per sostenere la missione federale di sicurezza interna. In ogni caso Trump ha raggiunto uno dei suoi obiettivi: creare una frattura netta nel sistema federale.

A Washington, intanto, il Dipartimento della Difesa, prontamente rinominato “della Guerra”, ha confermato che parte della Guardia è ancora in stato di allerta, mentre il Dipartimento di Giustizia prepara l’appello contro le decisioni dei tribunali di Los Angeles e Portland. Gli esperti di diritto costituzionale prevedono che la questione approderà presto alla Corte Suprema, chiamata a definire uno dei limiti più delicati del potere esecutivo. E il fatto che la maggioranza (6 a 3) sia conservatrice e spesso a favore di Trump, non fa ben sperare. 

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