Un paese che scambia il ceto medio per privilegiato sceglie consapevolmente la stagnazione

Il governo è un Robin Hood al contrario, che – come lo sceriffo di Nottingham – sottrae ai poveri per dare ai ricchi? Il sistema tributario italiano (e, più in generale, la nostra politica economica) ha senz’altro aspetti regressivi. Ma rivolgere questa accusa alla legge di bilancio per l’anno 2026, al cui centro c’è il taglio della terza aliquota Irpef dal trentacinque al trentatré per cento, è una vera stupidaggine, per usare un eufemismo.
Anzitutto perché, retorica politica a parte, i ricchi di cui stiamo parlando non lo sono affatto: l’intera discussione strumentalizza alcune note descrittive della Banca d’Italia e dell’Istat sugli effetti distributivi della manovra, che sottolineano come i principali beneficiari siano i contribuenti appartenenti al quaranta per cento più ricco della popolazione, cioè quelli con un reddito lordo superiore ai ventiseimila euro. Che questi individui possano essere considerati anche solo benestanti denota un problema non solo nel livello dei redditi italiani, ma anche, e soprattutto, nel nostro sistema mediatico e nella qualità del dibattito politico.
In secondo luogo, siamo alla quarta manovra finanziaria di questo governo: è la prima che assegna (poche) risorse a questa fetta di contribuenti, che pure versa all’erario circa i tre quarti del totale del gettito Irpef. Le precedenti leggi di bilancio si erano focalizzate sui redditi bassi, con l’obiettivo di proteggerne i redditi dall’inflazione: per fare ciò, nel rispetto dei vincoli di bilancio, l’esecutivo aveva finora sacrificato i (più) ricchi, che non solo non avevano ricevuto alcun sostegno, ma erano stati penalizzati dal taglio delle deduzioni.
Con l’intervento per il 2026, il governo cerca di restituire, per quanto solo parzialmente, ai redditi medi una parte di quanto è stato sottratto loro dal fiscal drag,. Ed è proprio questo il punto: altrimenti non si capirebbe perché, come giustamente contesta l’opposizione, in questi anni la pressione fiscale è salita (quest’anno sarà al quarantadue virgola otto per cento).
Se vogliamo fare un discorso serio, dovremmo semmai prendere in mano il sistema tributario nel suo complesso e rimuovere gli enormi disincentivi alla creazione di ricchezza che esso contiene: ogni discontinuità, in corrispondenza della quale un aumento di reddito lordo non si traduce in un incremento delle risorse disponibili, perché falcidiato dal fisco, è un danno alla crescita economica. Ancora più importante, però, è abbandonare il tic retorico per cui ricco è un insulto – a maggior ragione se tale infamante etichetta viene attribuita a chi non è neppure vagamente privilegiato. Sui pregiudizi contro la ricchezza ha scritto ampiamente Rainer Zitelmann, “Ricchi borghesi”: qui basti dire che un paese che continua insistentemente a bastonare chi fa soldi non può che condannare sé stesso alla povertà e al declino.
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