“Appartengo dunque sono”: Marta Zighetti e il coraggio di riconoscersi nel noi

«Appartengo dunque sono». È la frase che Marta Zighetti sceglie per tenere insieme il senso di un libro e di una serata. Martedì 28 ottobre, dialogando con Michele Mancino e accompagnata dalle letture di Elisa Carnelli, la psicoterapeuta ha presentato a Materia, lo spazio libero di Varese News, Non c’è io senza noi (Deste Edizioni): ventiquattro esperienze che attraversano il tema dell’appartenenza, tra psicologia, relazioni e vita quotidiana.

Zighetti parte da un’idea semplice e radicale: nessuno esiste da solo. «Il senso di me nasce da un noi che mi ha contenuto», spiega citando Edgar Morin e la sua teoria del doppio software, quello individuale e quello collettivo. L’appartenenza, dice, è ciò che costruisce l’identità, ma può diventare anche una gabbia quando la paura di restare soli pesa più della libertà.
A dare voce al libro è Elisa Carnelli, che legge alcune storie: il bambino diviso tra due case e due genitori; l’adolescente che nel reparto di cura trova una “famiglia” sbagliata prima di incontrare la cooperazione; la donna che dopo la morte del padre impara a riconoscersi e a dire “io” senza rinnegare il “noi”. Racconti diversi, uniti dalla stessa tensione: cercare un posto dove sentirsi visti.
Nel confronto con il vicedirettore di Varese News Michele Mancino, Zighetti intreccia pratica clinica e riflessione sociale. Cita Judith Herman e Jack Saul per ricordare che la guarigione è anche un fatto comunitario: «Serve una società che riconosca il dolore e lo ripari». Da questa idea nasce il progetto di terapia sospesa, promosso dal centro Essere Esseri Umani, che permette di offrire sedute psicologiche a chi non può sostenerle. «Se tocchiamo un punto del sistema e aiutiamo una madre, staranno meglio anche i suoi figli», spiega.
Il discorso si allarga poi ai luoghi dell’appartenenza. Zighetti cita Tempelhof, l’aeroporto di Berlino trasformato in parco dai cittadini, e il Macrico di Caserta, ex area militare restituita alla collettività. «Abbiamo bisogno di spazi liberi aperti alla diversità dove far atterrare la domanda e l’offerta di futuro» sottolinea Michele Mancino, citando il sociologo Filippo Barbera.
A chiudere la serata è Elisa Carnelli, con un frammento di realtà: il suo lavoro di teatro nel carcere di Busto Arsizio con l’associazione Oblò. «Quando un detenuto esce piangendo e ringrazia per ciò che ha trovato, significa che lì dentro si è creato un legame vero». L’appartenenza come forma di resistenza alla solitudine, come gesto che restituisce al pronome “noi” la sua parte più umana.
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