Intervista a Stefan Strandberg: Creative Director di ARC Raiders


C’è qualcosa di profondamente umano nel mondo di ARC Raiders. Nonostante sia un pianeta devastato, dove il ferro arrugginito e il cemento spezzato raccontano una civiltà perduta, il nuovo progetto di Embark Studios non vuole essere un’altra storia di disperazione, ma una lettera d’amore alla sopravvivenza.
A guidarci dietro le quinte è Stefan Strandberg, direttore creativo già noto per il suo lavoro sulla serie Battelfield, che mi ha raccontato come un’idea nata tra i vulcani di Tenerife sia diventata un universo sospeso tra il Sud Italia, il Rinascimento e la fantascienza retrò.
Dal difficile passaggio da PvE a PvP alla ricerca di un sound design capace di “rendere credibile l’incredibile”, Strandberg ci accompagna in un viaggio dove la bellezza nella decadenza diventa il cuore pulsante del gioco. https://www.youtube.com/watch?v=zB1pmNZt_dM
ARC Raiders, la bellezza nella decadenza | Intervista a Stefan Strandberg di Embark Studios
Frankie: Mi hanno detto che conosci un po’ di italiano.Stefan: Ne capisco un po’, ma... ho dimenticato tutto, ahaha.
Frankie: Dunque, il gioco è ambientato in una versione reimmaginata del Sud Italia — una scelta piuttosto rara per un’ambientazione distopica. Era qualcosa che avevate pianificato fin dall’inizio? E cosa vi ha dato, dal punto di vista creativo, quel tipo di scenario?
Stefan: Sono contento che tu me lo chieda. È stato, come ogni processo organico nella costruzione di un mondo di gioco. Quando abbiamo iniziato a creare un mondo post-apocalittico, sapevamo fin da subito cosa non volevamo fare. Abbiamo visto tanti “Pax Americana” apocalittici — guerre, disastri ambientati ad Atlanta o San Francisco — ed è un immaginario che è già stato esplorato molto.
Era chiaro fin dall’inizio che volevamo ambientarlo in Europa. Il modo in cui poi siamo finiti in Italia è qualcosa che abbiamo valutato anche per ciò che poteva offrirci. Da sviluppatore cerchi sempre un luogo che abbia una grande ricchezza da cui attingere: cultura, storia e ambienti diversi tra loro.
E l’Italia ha tutto questo. Ricordo, quando lavoravo come direttore creativo su Battlefield 1, che siamo venuti in Italia per scannerizzare le montagne e le trincee. Conosco abbastanza bene molte zone del Paese, e mi è sembrato subito un mondo straordinariamente ricco da cui prendere ispirazione.
Ha questa storia di architetture brutaliste che si intrecciano con quelle classiche rinascimentali. Ma la storia di come siamo arrivati davvero a scegliere l’Italia nasce da un viaggio fotografico a Tenerife, dove stavamo facendo degli esperimenti di creazione procedurale di grandi ambienti. C’era un vulcano, sì, ma nient’altro.
Abbiamo però ereditato da lì molte caratteristiche dei biomi: gli alberi, la vegetazione, la fauna. Poi ci siamo detti: “Ok, ma il gioco deve pur essere ambientato da qualche parte.” E questo prima ancora di scegliere un genere preciso. Quando abbiamo iniziato a costruire il mondo, guardavamo a diverse possibilità: l’Etna, il Vesuvio vicino a Napoli, oppure Reggio Calabria.
Il nostro team artistico ha viaggiato in diverse città e parchi, facendo moltissimi scatti di riferimento fotografico. Quando abbiamo poi sviluppato Speranza, la città sotterranea, ci siamo ispirati molto anche all’infrastruttura di Napoli, con le sue autostrade sopraelevate e la Galleria Umberto. C’è un fascino enorme in tutto questo.
E, naturalmente, con il massimo rispetto, abbiamo anche diversi italiani nel team, proprio per validare certi aspetti. Quando svedesi cercano di ricreare l’Italia, può diventare un campo minato, quindi siamo stati molto cauti nel rendere giustizia all’ambientazione.
Detto questo, non è una rappresentazione uno a uno dell’Italia reale. Abbiamo simulato un collasso ecologico, chiedendoci: cosa succede se il livello del mare si alza di 200 metri? Guardando la mappa, ci siamo accorti che ciò che rimaneva dell’Italia si allineava bene con quella che chiamiamo la “Rust Belt”, la cintura arrugginita.
Insomma, tante variabili prima di arrivare alla decisione finale. Non era stabilito dal primo giorno, ma sapevamo di voler realizzare un sci-fi realistico e terreno, senza renderlo grigio o deprimente — volevamo fosse ricco, stratificato, pieno di speranza. E l’Italia incarna perfettamente tutto questo: la bellezza nella decadenza.
Inoltre non volevamo raccontare una storia triste. Per questo abbiamo deciso di ambientarlo alcune generazioni dopo la fine del mondo, in un’epoca in cui le persone non sono più nostalgiche del passato, ma semplicemente vivono nel loro presente.
Frankie: Quindi ormai ci sono abituati, in un certo senso.
Stefan: Esatto. E questo, per chi sviluppa un gioco, offre una grande libertà. Abbiamo cercato di inserire ovunque piccoli riferimenti e omaggi all’Italia, quanto più possibile. È un tema a cui tengo molto.
Frankie: Lo credo bene. Quando ho scoperto che il gioco era ambientato nel sud Italia mi ha colpito subito, perché — beh — finalmente! Di solito, quando nel mondo succede qualcosa di terribile, non accade mai in Italia. È sempre negli Stati Uniti, nel Regno Unito o al nord Europa. Quindi vedere un’interpretazione del sud, e per di più così curata nei dettagli, mi ha fatto molto piacere.
Ora, ogni progetto ambizioso attraversa dei momenti critici. Qual è stata la sfida più grande per te e per il team durante lo sviluppo di ARC Raiders?
Stefan: Come puoi immaginare, sì, è stato proprio quello il punto. La sfida principale è nata dal fatto che inizialmente ARC Raiders era concepito come un gioco PvE cooperativo. Abbiamo investito molto nella creazione dei nostri nemici, gli ARC, e già in quella fase c’erano momenti di gioco davvero divertenti.
Ma, come sempre, arriva il momento in cui ti chiedi: questo gioco può durare nel tempo? Ha abbastanza scala? E la risposta è stata che, pur essendo divertente in certi momenti, non stava in piedi da solo. Non sembrava un titolo capace di offrire centinaia di ore di gioco.
Poi abbiamo introdotto il PvP, e lì tutto è cambiato. Il sandbox è diventato più ricco, più imprevedibile. È stato come se uno più uno facesse tre. Ci sono più momenti emergenti, anche grazie all’intelligenza artificiale robotica del gioco: puoi perfino provare empatia per i giocatori attaccati dalle macchine ARC.
È stata una scelta che ha reso tutto più interessante. Anche se, lo ammetto, il genere degli extraction shooter è spesso frainteso. Per noi non è un genere in sé, ma una meccanica di progressione, la base di un gioco più grande. Spero che anche chi ama gli RPG o le esperienze single player possa trovarci qualcosa di familiare.
Dopo anni di sviluppo, e in piena pandemia, è stato un periodo difficile. Ma la salvezza è stata che potevamo mantenere gran parte di ciò che avevamo costruito: il mondo, i nemici, le loro fisiche, le interazioni. L’unico vero problema era che avevamo già annunciato un gioco diverso. Se non l’avessimo fatto, nessuno si sarebbe accorto di quanto fosse stato tortuoso il percorso.
Ma in realtà — e te lo assicuro — quasi tutti i giochi passano per fasi simili. Noi siamo solo stati più trasparenti nel raccontarlo.
Frankie: Sì, ricordo l’annuncio del cambio da PvE a PvPvE. Io ho pensato: “Va benissimo così”, perché ciò che mi aveva colpito non era tanto la modalità, ma tutto il resto — il mondo, i nemici, l’atmosfera. Finché quella parte rimaneva, ero contento.
Ora una domanda più tecnica. Dato il tuo passato come direttore dell'audio su Battlefield, ARC Raiders ha un’incredibile atmosfera sonora: anche nei momenti di silenzio c’è sempre qualcosa di vivo — un ronzio, il vento, una radio lontana. Qual è la tua filosofia nella gestione del suono e della narrazione? Come si costruisce un “silenzio che parla”?
Stefan: Domanda perfetta per il nostro team audio! Ma posso dirti che condivido totalmente la loro visione. È uno di quei giochi in cui il suono ha davvero un ruolo centrale. Hanno appena pubblicato un podcast di un’ora in cui ne parlano approfonditamente, ti consiglio di ascoltarlo.
Personalmente, credo che quando i giocatori vivono in un mondo popolato da macchine onnipresenti, il suono diventa importante quanto la vista. Abbiamo pubblicato anche un video dedicato ai paesaggi sonori: io stesso avevo piazzato delle telecamere in diverse zone del mondo di gioco per catturare ciò che accadeva durante i playtest. C’è tantissima informazione, sia estetica che ludica, dentro quei suoni.
L’audio è la base dell’immersione. Non è qualcosa che aggiungi in post-produzione: è parte integrante del gameplay. Inoltre, cerchiamo di ridurre al minimo gli elementi dell’interfaccia, così da spingere il giocatore a “entrare” nel mondo e ad ascoltare. È un modo per rispettare la sua attenzione e la sua intelligenza.
Il nostro team audio è piccolo ma fenomenale — tutti veterani, molti provenienti da Battlefield. Ci capiamo al volo. Condividiamo una filosofia di sound design naturalistico: non decoriamo il gioco con effetti esagerati, come a volte fa Hollywood (pur con rispetto per chi lo fa). Spencer, il nostro direttore audio, ha una frase che riassume tutto:
“Il nostro obiettivo è rendere credibile l’incredibile.”
E credo che non ci sia modo migliore per dirlo.
Frankie: Bellissimo modo di chiudere la risposta. Hai citato Hollywood: la direzione artistica di ARC Raiders mescola nostalgia e futurismo. Ci sono state influenze artistiche o cinematografiche specifiche dietro questo tono?
Stefan: Sì, assolutamente. Il nostro direttore artistico potrebbe parlarne per ore. Abbiamo attinto da tantissime influenze: gli Spaghetti Western, Stanley Kubrick, Roger Deakins, e moltissima arte illustrata, poster e grafiche degli anni ’50, ’60 e ’70.
Lo si nota anche nel design dei personaggi. Quello che vedi dietro di me, ad esempio, è praticamente Steve McQueen in una versione moderna di un film d’azione di quegli anni. Combiniamo elementi familiari — un giocatore di baseball, un astronauta — e li mescoliamo con tecnologia utilitaristica e nostalgia anni ’80, quella fatta di materiali, pulsanti e leve che puoi quasi toccare.
Volevamo evitare gli schermi tattili, i design troppo puliti del futuro. Cercavamo calore, qualcosa di tangibile, reale. E visto che il gioco è ambientato un paio di generazioni nel futuro, ci siamo concessi la libertà di creare combinazioni “innaturali”, ma credibili, dove la somma diventa più grande delle singole parti.
La mia bacheca d’ispirazione è piena di copertine di dischi degli anni ’70 e dei classici del cinema di quell’epoca. E se hai visto il nostro ultimo trailer, abbiamo anche inserito una traccia famosa come piccolo omaggio agli anni ’90 — quella surf-rock di Pulp Fiction, che in realtà è una rielaborazione di Dick Dale di una canzone greca degli anni ’60. È tutto un gioco di strati culturali.
Frankie: Un vero e proprio mix-and-match avete fatto.
Stefan: Esatto. Ogni buon lavoro di world-building si fonda sui livelli, sul rispetto per come la cultura si è evoluta nel tempo. Non vogliamo imitare qualcosa, ma combinare elementi diversi fino a farli diventare qualcosa di nuovo.
Se dici soltanto “facciamo un universo sci-fi”, finisci per somigliare a tutti gli altri.
C’è una “ricetta” che seguiamo, fatta di tessuti italiani e spirito anni ’60, ’70 e ’80: è un bacino di ispirazioni molto ricco da cui attingere.
Frankie: Concordo. È qualcosa di davvero unico. Ti chiedo ora: qual è l’aspetto di ARC Raiders che ti ha richiesto di più — in termini di energia, lavoro o emozione — ma che probabilmente passerà inosservato ai giocatori?
Stefan: Domanda interessante. Quando le persone dicono che amano questo mondo ma non sanno spiegare bene il perché, mi incuriosisce molto. Credo sia il risultato della combinazione simultanea di tanti elementi.
Il nostro team di world-building e quello artistico sono gli eroi silenziosi del progetto. Hanno preso influenze diversissime e le hanno rese coerenti. Quella coerenza sottile, che fa sentire il mondo “giusto” senza che tu capisca esattamente perché, è una delle cose che rischiano di non essere notate.
E va bene così. Anche un buon sound design spesso passa inosservato, e dovrebbe essere così: deve fondersi con l’esperienza, non imporsi su di essa.
Un altro aspetto che potrebbe non emergere è il modo in cui abbiamo costruito le quest, facendo sì che il giocatore scopra la storia gradualmente, senza essere imboccato. Il mondo si racconta da solo, attraverso i personaggi e i luoghi. Molti forse non si renderanno conto di quanto lavoro ci sia dietro a quel tipo di narrazione.
Rispetto ad altri giochi del genere, abbiamo investito moltissimo nel world-building e nella scrittura ambientale. È ciò che rende il gioco così vivido e coerente.
Anche i nemici ARC, per esempio: sono imprevedibili, interagiscono con l’ambiente e con i giocatori in modi inaspettati. C’è una profondità lì dentro che forse non tutti sapranno descrivere, ma che sentiranno.
Frankie: Sì, è vero. Da giocatore, anch’io ho percepito che è la combinazione di tutto — l’audio, l’atmosfera, il mondo. All’inizio pensavo fosse solo missione dopo missione, ma poi ho visto delle cutscene che accennavano a qualcosa di più grande, e mi ha incuriosito tantissimo. Purtroppo il test tecnico era limitato, ma ho avuto la sensazione che ci fosse molto di più dietro.
Ovviamente ognuno si legherà a un aspetto diverso — chi al sonoro, chi al combattimento — ma il tutto funziona davvero bene insieme.
Stefan: Esatto. Io credo molto nel lasciare al giocatore lo spazio per mettere insieme i pezzi da solo. Andrew Stanton, di Pixar, diceva: “Non dare al pubblico quattro, dagli due più due.” È così che abbiamo costruito la narrativa.
Come in Cloverfield o in La guerra dei mondi di Spielberg, manteniamo la prospettiva vicina al suolo, limitata a ciò che vedono gli abitanti di questo mondo. Non mostriamo tutto ciò che accade nel resto del pianeta. È un punto di vista intimo, umano.
Preferisco che il giocatore si chieda “cosa sta succedendo davvero?” piuttosto che ricevere una spiegazione diretta. Il nostro team narrativo dissemina indizi, piccole briciole di storia. Abbiamo anche un sistema di codex che si espande man mano che giochi, rivelando frammenti del passato, delle origini delle macchine ARC, di come funzionano. Tutto viene scoperto gradualmente, al proprio ritmo.
Ovviamente ci saranno fan wiki e teorie, ma vogliamo che anche il gioco stesso contenga la sua mitologia interna, coerente. È importante per un titolo di fantascienza: dare un contesto al pubblico, ma senza spezzare l’immersione.
Frankie: E guardando al futuro, ARC Raiders è un progetto destinato a evolversi con nuovi contenuti. Come pensi che il gioco crescerà senza perdere la sua anima? Perché tanti titoli “live” partono forti, ma poi si smarriscono col tempo.
Stefan: È una preoccupazione legittima. Opereremo tenendo presenti tre elementi principali.
Il primo sono le nostre ambizioni creative, cioè come vogliamo espandere il mondo e i suoi sistemi. Il secondo riguarda la gestione pratica di un gioco live: stabilità, miglioramenti alla qualità della vita, correzione dei bug — quella manutenzione che devi ai giocatori per rispettare il “contratto” con loro. E il terzo è la voce della community.
Ascolteremo cosa desiderano, di cosa discutono, cosa chiedono. Alcuni desideri si allineeranno ai nostri, altri no, ed è giusto così. Se fai solo ciò che vuole la community, smetti di essere l’autore della tua opera; se la ignori completamente, perdi il legame con chi gioca.
Il punto d’equilibrio è nel mezzo: unire la nostra visione a lungo termine con l’energia della community. Vogliamo costruire questo gioco insieme ai giocatori, espandendo il mondo, la narrazione, le meccaniche, ma senza perdere la direzione.
Abbiamo grandi piani per ARC Raiders. Questo è solo l’inizio. Anzi, tra ventisette minuti esce un nuovo trailer — devo scendere di sotto a proiettarlo per il team sul maxi schermo!
Frankie: Giusto, allora ti lascio andare. È stato davvero un piacere parlare con te, e non vedo l’ora di giocare alla versione finale al day one!
Stefan: Grazie a te per il tempo e per la chiacchierata. A presto!
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