Il British Council in crisi: l’impero culturale britannico sul filo del rasoio

Ottobre 30, 2025 - 11:00
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Il British Council in crisi: l’impero culturale britannico sul filo del rasoio

Per quasi un secolo, il British Council è stato uno dei principali ambasciatori culturali del Regno Unito nel mondo. Ha insegnato l’inglese a milioni di studenti, portato mostre, teatro, letteratura e cinema britannico in ogni continente, sostenuto artisti emergenti e costruito ponti tra Paesi lontani attraverso la diplomazia della cultura.
Oggi però, quel simbolo di soft power universale è in pericolo. A causa di una crisi finanziaria senza precedenti, il British Council rischia di dover vendere parte della propria collezione d’arte, chiudere decine di sedi all’estero e ridimensionare drasticamente le sue attività.
Dalle aule di Londra ai parlamenti di Westminster, si discute se e come salvare un’istituzione che, come ha scritto il Corriere della Sera, rappresenta “una delle bandiere più riconoscibili del Regno Unito nel mondo”.

Le origini del British Council: la cultura come diplomazia

Fondato nel 1934, il British Council nasce in un periodo cruciale per la storia europea. L’obiettivo originario era chiaro: rafforzare l’influenza britannica attraverso la cultura, in un momento in cui le tensioni internazionali rendevano necessario un nuovo modo di esercitare il potere.
Non più soltanto eserciti e colonie, ma arte, lingua, conoscenza e scambi educativi. Nel 1940, in piena Seconda guerra mondiale, l’istituzione assume lo status ufficiale di ente pubblico con Royal Charter, e inizia a espandersi in tutto il mondo, portando i valori e la lingua del Regno Unito nei territori del Commonwealth e oltre.

Oggi il British Council opera in oltre 100 Paesi, con programmi che raggiungono circa 650 milioni di persone ogni anno.
Il suo compito è promuovere la lingua inglese, l’istruzione, le arti e le relazioni culturali internazionali, agendo come braccio culturale del Foreign, Commonwealth & Development Office (FCDO), ma mantenendo una certa autonomia operativa.

Tra le sue attività più note:

  • insegnamento della lingua inglese e organizzazione di esami internazionali come IELTS e Cambridge English;

  • scambi accademici e borse di studio con università di tutto il mondo;

  • promozione delle arti visive, del teatro, della letteratura e della musica britannica;

  • cooperazione internazionale su temi come inclusione sociale, istruzione femminile e innovazione culturale.

In quasi un secolo di vita, il British Council è diventato il più grande network culturale pubblico del pianeta, superato per dimensioni solo dall’Institut Français.
Ma la sua grandezza si reggeva su un equilibrio fragile: una combinazione di fondi pubblici e ricavi autonomi, in gran parte derivanti dai corsi di lingua e dagli esami.

Dalla pandemia al collasso: un modello in crisi

Fino al 2019, il British Council era considerato un modello di sostenibilità nel settore culturale pubblico. Oltre il 70% delle sue entrate proveniva da attività commerciali, mentre il restante 30% arrivava da finanziamenti governativi.
L’arrivo della pandemia di Covid-19 ha però fatto crollare il sistema: la chiusura delle sedi e la sospensione degli esami di lingua hanno provocato perdite per oltre 150 milioni di sterline in un solo anno.

Per sopravvivere, il governo britannico ha concesso nel 2020 un prestito straordinario di 197 milioni di sterline, da rimborsare entro il settembre 2026, attraverso l’Advanced Research and Invention Agency (ARIA) e il Foreign Office.
Quel prestito, però, è diventato un macigno. Con gli interessi e l’inflazione, il debito costa oggi all’ente circa 12–15 milioni di sterline l’anno, una cifra insostenibile per un’organizzazione che non si è mai completamente ripresa dal collasso del settore linguistico post-pandemico.

Secondo quanto dichiarato dal direttore generale Scott McDonald al Parliament’s Foreign Affairs Committee, il British Council è costretto a “vendere tutto ciò che può per sopravvivere”, compresi immobili e opere d’arte.
Dal 2021 sono già stati avviati tagli di personale, chiusure in 35 Paesi e la vendita di immobili per circa 90 milioni di sterline.
Nonostante gli sforzi, la situazione resta drammatica: senza un intervento politico, il British Council rischia di non arrivare al 2026.

Il Financial Times riporta che, in assenza di nuove misure, il Consiglio dovrà ridurre ulteriormente la propria presenza all’estero, ritirandosi da aree cruciali come Africa subsahariana, Sud America e Asia centrale (fonte ufficiale FT).
Il problema non è solo economico: una riduzione della rete internazionale significherebbe perdere influenza diplomatica e culturale, proprio mentre altri Paesi – Francia, Cina e Corea del Sud – potenziano i propri istituti culturali.

L’arte come ancora di salvezza: 9.000 opere in vendita

Uno degli aspetti più controversi della crisi riguarda la collezione d’arte del British Council, una delle più importanti raccolte pubbliche britanniche, nata nel 1938 con l’obiettivo di promuovere artisti contemporanei del Regno Unito nel mondo.
Oggi conta oltre 9.000 opere, tra cui dipinti di Lucian Freud, Henry Moore, Barbara Hepworth, David Hockney, Bridget Riley, Anish Kapoor e Tracey Emin, con un valore stimato di oltre 200 milioni di sterline.

Questa collezione, esposta in migliaia di mostre e prestiti internazionali, è sempre stata considerata una vetrina del genio britannico. Ma ora, paradossalmente, potrebbe diventare il prezzo da pagare per salvare l’istituzione che l’ha creata.
Secondo quanto riportato dal Corriere della Sera e dal Financial Times, il British Council sta valutando la cessione o il trasferimento allo Stato di parte delle opere come compensazione per il prestito Covid, o per ottenere liquidità immediata.

La notizia ha suscitato un’ondata di critiche nel mondo dell’arte. Molti esperti parlano di “svendita del patrimonio culturale britannico”, mentre altri sottolineano che il vero rischio è la disgregazione di un sistema unico di diplomazia culturale, in cui l’arte non è un investimento economico, ma un linguaggio di rappresentanza.

Un funzionario dell’Arts Council England, sotto anonimato, ha commentato: “Se il British Council vende la sua arte, il Regno Unito perde una parte della propria voce nel mondo. È come chiudere un’ambasciata invisibile.”

La questione è tuttora aperta. Il Foreign Office ha dichiarato che il sostegno al British Council resta fermo, ma “nessuna decisione definitiva” è stata presa sul prestito o sull’eventuale trasferimento della collezione.

Il peso del soft power britannico

Il termine soft power, coniato dal politologo americano Joseph Nye, descrive la capacità di un Paese di influenzare gli altri non con la forza, ma con la cultura, i valori e l’attrattiva del proprio modello di vita.
In questo senso, il British Council è da sempre l’architrave del soft power del Regno Unito, insieme alla BBC World Service e alle grandi università britanniche.

Attraverso la lingua inglese, il cinema, la letteratura, la moda e l’arte, il British Council ha costruito un’immagine del Paese moderna, aperta e cosmopolita.
Il suo network culturale ha favorito scambi accademici, cooperazione economica e relazioni politiche: un “ecosistema invisibile” che ha contribuito a mantenere viva la reputazione britannica anche nei momenti di crisi geopolitica.

Secondo un rapporto del King’s College London, ogni sterlina investita nel British Council genera un ritorno di circa 1,50 sterline in termini di reputazione, turismo e collaborazione accademica.
Ma con i tagli e le chiusure, questo sistema rischia di collassare.

L’Institute for Government, think tank indipendente di Londra, ha stimato che una riduzione del 40% della presenza globale del British Council potrebbe dimezzare l’impatto culturale del Regno Unito entro il 2030, proprio mentre nuovi attori – come la Cina, con i suoi Istituti Confucio, o la Corea del Sud, con il K-cultural diplomacy plan – stanno ridefinendo gli equilibri della diplomazia culturale globale.

In altre parole, salvare il British Council non significa solo salvare un ente, ma preservare uno dei principali strumenti di influenza britannica nel mondo.

La politica e il destino di un’istituzione

La crisi del British Council ha anche un chiaro risvolto politico. Il nuovo governo guidato dai laburisti deve decidere se e come intervenire per evitare il collasso dell’ente.
L’attuale ministra degli Esteri, Yvette Cooper, si trova a gestire un’eredità complessa: il prestito da rinegoziare, il dibattito sulla vendita della collezione d’arte e il ruolo del British Council nel futuro Soft Power Council annunciato dal predecessore David Lammy.

Durante un’audizione parlamentare, il CEO Scott McDonald ha dichiarato che “senza una soluzione concordata con il Tesoro, entro il 2026 non saremo più in grado di garantire la nostra missione globale”.
I deputati conservatori e laburisti, di rado concordi, hanno riconosciuto che il caso del British Council “è una questione di interesse nazionale”.

Il Foreign, Commonwealth & Development Office ha ribadito in una nota ufficiale che “il governo riconosce il ruolo vitale del British Council nel promuovere il soft power del Regno Unito e sta valutando opzioni sostenibili per il futuro finanziario dell’organizzazione”.
Tra le ipotesi in discussione:

  • rinegoziazione del prestito con tasso agevolato e rimborso dilazionato;

  • condono parziale in cambio della cessione di alcuni asset culturali;

  • integrazione diretta nel bilancio del FCDO come agenzia pubblica a tutti gli effetti.

Nessuna di queste opzioni, tuttavia, è priva di rischi.
Una maggiore dipendenza dal governo ridurrebbe l’autonomia culturale dell’ente; una vendita parziale del patrimonio d’arte aprirebbe un precedente pericoloso; e un default finanziario cancellerebbe decenni di lavoro diplomatico.

Il futuro della cultura britannica nel mondo

Oltre la crisi immediata, la vicenda del British Council solleva domande più ampie sul ruolo della cultura nel XXI secolo.
In un’epoca dominata da tensioni geopolitiche e disinformazione, la cultura resta una delle poche forme di dialogo capaci di unire.
Il British Council ha incarnato questa missione meglio di chiunque altro: ha promosso l’arte e la lingua come strumenti di comprensione reciproca, costruendo ponti silenziosi tra Londra e il resto del mondo.

La sua eventuale riduzione non sarebbe solo una perdita economica, ma un segnale simbolico: il segno che la Gran Bretagna sta rinunciando a parte del suo ruolo culturale globale.
Come ha scritto The Guardian, “il giorno in cui il British Council smetterà di insegnare inglese o di prestare i suoi quadri, il Regno Unito avrà smesso di parlare al mondo nella propria lingua più autentica: quella della cultura.”

Mentre la crisi finanziaria prosegue, il Consiglio continua a lavorare in silenzio.
Nel 2024 ha lanciato nuovi programmi di digital education, partnership artistiche con l’Africa orientale e il Sud-Est asiatico, e progetti di scambio interculturale post-Brexit.
Ma senza una soluzione politica chiara, questi sforzi rischiano di non bastare.

Il destino del British Council è anche una prova per il Regno Unito stesso: dimostrare se la sua idea di “Global Britain” sia ancora viva o se stia diventando solo un ricordo del passato.


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Immagine di copertina: By Springedits2015 – Own work, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=56829221

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