Francesco Presutti, vent’anni di maratona a New York
Ogni anno, oltre cinquantamila persone attraversano i cinque distretti di New York per partecipare a una delle maratone più iconiche del mondo. Tra loro c’è anche Francesco Presutti, corridore esperto e guida del Metropolitan Museum, che da vent’anni non manca all’appuntamento con la corsa più attesa della città. Lo abbiamo intervistato per parlare della sua storia, delle emozioni della maratona e del curioso legame tra sport e arte che unisce le sue due grandi passioni.
Ciao Francesco, rompiamo un po’ il ghiaccio: da quanto tempo vivi a New York?
Da circa diciassette anni, anche se non in modo continuativo. Inizialmente sono venuto per una missione diplomatica, ma poi ho scelto di restare. Qui mi trovo bene, è casa mia, e la mia famiglia ormai vive qui.
Ti ricordi il primo impatto con la città?
Certo. Anche se la vediamo spesso nei film, l’America è molto diversa da come la immaginiamo. Arrivai da studente, e lo shock culturale fu forte. Non solo per le mance nei locali, ma per la mentalità, i ritmi, il modo di vivere. Con il tempo ho imparato ad apprezzare queste differenze: ora mi sento metà americano e metà italiano. Quando torno in Italia mi accorgo che mi comporto da americano, e viceversa.

Da quanto tempo corri la maratona di New York?
Ho cominciato a correre vent’anni fa, proprio con la mia prima maratona. Non ero mai stato un corridore prima, ma a New York sentivo parlare continuamente di questa gara e mi incuriosiva. Feci la lotteria per il pettorale, la vinsi e mi ritrovai a correre senza alcuna preparazione, con un paio di scarpe da tennis. Da allora non ho più smesso: ho corso 17 maratone di New York praticamente ogni anno, tranne una in cui ero infortunato, un’altra cancellata per l’uragano Sandy del 2012 così come quella del 2020 per il Covid. È diventato un appuntamento annuale, una tradizione a cui tengo molto. Da un paio d’anni ho integrato anche il lavoro di running coach, che è un modo
per condividere con altri la gioia e la passione per la corsa e la maratona.
C’è una maratona che ti è rimasta particolarmente nel cuore?
Tutte, in verità, ognuna ti riempie di gioia: le prime volte è un’emozione straordinaria, soprattutto quando attraversato il Queensboro Bridge si passa improvvisamente dal silenzio del ponte a quella folla festosa sui bordi della First Avenue, è da brividi… ma forse ce n’è una in particolare: quella del 2021, la cinquantesima edizione della Maratona di New York. È stata anche la mia cinquantesima maratona in assoluto, e la prima dopo la pandemia. Non c’erano corridori internazionali per via delle restrizioni, ma io ero già qui e ho potuto correrla. È stata una doppia celebrazione: la ripresa dopo il Covid e un traguardo personale importante, per altro corredato da una particolare coincidenza numerica. Io sono fissato con i numeri, con la magia dei numeri, un po’ come tutti i corridori. Più in generale, di momenti di gioia durante la maratona ce ne sono un’infinità, ma quello più esaltante è ovviamente quando taglio il traguardo. Arrivare a quel punto è allo stesso tempo il culmine di mesi e mesi di sacrifici ma anche un trionfo della mente sul corpo, perché serve una grande forza di volontà, oltre che un’endurance costruita con tante uscite in allenamento, per imporsi di continuare a correre anche quando le energie cominciano a diminuire.
E ad oggi a che numero di maratone sei arrivato in totale?
Come dicevo, di New York ne ho fatte 17, ma in totale sono arrivato a 63 maratone da quando ho iniziato a correre.
Quest’anno c’è una novità legata ai campionati del mondo per fasce d’età, giusto?
Sì, quest’anno la Maratona di New York ospita per la prima volta gli Age Group World Championships, i campionati mondiali per divisione di età. Io parteciperò anche a questa classifica, che premia i migliori in ogni fascia. È una cosa in più che rende questa edizione speciale.
Com’è l’atmosfera in città durante la maratona?
È il giorno più bello dell’anno a New York. Non riguarda solo i corridori: tutta la città partecipa, le persone si riversano per strada, incoraggiano, festeggiano. C’è un senso di comunità che raramente si vive in una metropoli come questa. Anche nei giorni precedenti si respira l’attesa: Central Park si riempie di corridori, gli stand con le pettorine, le bandiere, i preparativi… è una festa collettiva.

Oltre alla corsa, sei anche guida al Metropolitan Museum. Cosa succede al Met durante la maratona?
Il museo organizza una colazione per alcuni dei 55.000 corridori, con alcune brevi presentazioni dedicate alle opere legate allo sport. Io, come guida, presenterò un’anfora panatenaica: un vaso attico dell’era arcaica con l’immagine di cinque corridori, premio per il vincitore di una gara ad Atene nel VI secolo a.C. Era piena di olio sacro, circa 40 litri, e rappresentava l’onore e la gloria dell’atleta vincitore. Sarà bello raccontarlo ai maratoneti che verranno al museo con la loro medaglia. Mi si chiede spesso della durata delle corse: erano relativamente brevi, come si nota dalla
postura da velocisti degli atleti rappresentati sulle anfore. All’epoca non esisteva ancora la maratona: perfino la battaglia di Maratona, da cui nasce la leggenda che ha dato origine alle prime maratone moderne, è avvenuta dopo la realizzazione delle anfore che mostro al museo. Nei giochi panatenaici, e in generale nei giochi dell’antichità, gli atleti correvano nudi e il loro corpo era ricoperto d’olio per proteggerli dalla polvere.
Che reazioni ricevi dai visitatori?
Molti restano sorpresi: non sanno che la corsa fosse così importante già nell’antica Grecia, né che esistessero premi così raffinati. Alcuni collegano l’anfora al loro ricordo dello stadio panatenaico di Atene, ma in realtà quelle gare si correvano su piste aperte, prima che esistessero gli stadi. Mi piace vedere come una maratona moderna possa far scoprire la storia di uno sport antichissimo.
Quando si avvicina la maratona di New York, chiaramente si scatena il “folklore” che le gravita attorno; in questo vi sono anche alcuni episodi “illustri” di chi, nel tempo, ha provato a barare: uno dei casi più famosi è quello della cubana Rosie Ruiz…
Sì, purtroppo succede. Quella di Rosie Ruiz è anche una storia un po’ vecchia, ma di storie simili legate alla maratona ce ne sono tante. Sicuramente non è il lato migliore, è un po’ triste perché la comunità degli atleti, dei corridori, è invece una comunità molto positiva e chi imbroglia sicuramente non appartiene alla nostra categoria. C’è chi si dedica a scoprire gli imbroglioni, come il Marathon Investigator, ma anche lui ha smesso dopo aver visto quanto dolore possono causare certe esposizioni pubbliche. Sicuramente è più bello evidenziare le storie positive.
Quali sono invece le storie più belle legate alla maratona?
Quelle di chi corre per una causa. Ho un’amica che ha cominciato a correre dopo che al figlio, all’età di sette mesi, è stato diagnosticato un tumore. Da allora partecipa a ogni maratona per raccogliere fondi per l’ospedale pediatrico di New York che lo ha curato, il Memorial Sloan Kettering. Oggi il bambino sta bene e lei continua a correre: finora ha raccolto 350.000 dollari. Anch’io in passato in occasione di un paio di maratone ho creato raccolte fondi a scopo benefico. A Boston, ad esempio, per avere un pettorale tramite una charity devi raccogliere almeno 7.500 dollari, e spesso si arriva a 10 o 12 mila. È un modo concreto per fare del bene attraverso la corsa.
Dopo vent’anni e diciassette maratone, cosa rappresenta per te questa corsa?
È parte della mia vita. La corsa mi ha aiutato nei momenti difficili e mi ha insegnato molto su me stesso. Correre la maratona di New York non è solo una sfida sportiva: è un rito collettivo, una celebrazione della città e delle persone che la rendono viva ogni giorno.
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