Come la Cina compra greggio russo e iraniano aggirando le sanzioni

Nella primavera del 2019, un uomo iraniano di mezza età entrò nello studio di un avvocato a Zugo, in Svizzera. Parlando in un inglese eccellente, si presentò come Saeed Alikhani, un professionista che dice di lavorare per conto di Ocean Glory Giant, una società panamense di brokeraggio petrolifero. La richiesta è insolita: istituire ipoteche navali su petroliere che avrebbero trasportato greggio destinato a clienti cinesi. L’idea era che la nave fungesse da garanzia: se il pagamento non fosse arrivato, il creditore avrebbe potuto rivalersi sull’imbarcazione.
Nei successivi cinque anni, secondo quanto ricostruito dal Financial Times insieme al think tank C4ADS, quell’avvocato e due colleghi hanno firmato più di trenta ipoteche, per un valore complessivo di oltre un miliardo di dollari. «La procedura era sempre la stessa», ha raccontato uno degli avvocati coinvolti: «Ricevevamo il contratto, controllavamo che la nave non fosse sanzionata, e firmavamo».
Secondo la versione di Alikhani, le navi trasportavano greggio iracheno o malese. Ma le analisi dei registri marittimi e delle rotte mostrano tutt’altro: quei tanker caricavano e scaricavano petrolio iraniano, venezuelano e in seguito russo, ossia i Paesi colpiti dalle sanzioni occidentali.
Il meccanismo era rodato: ogni nave era intestata a una società diversa, spesso diretta da cittadini cinesi senza alcun profilo pubblico. Quando i giornalisti hanno provato a rintracciarli, molti hanno negato qualsiasi coinvolgimento, ammettendo di non sapere di essere titolari di società che possedevano petroliere dal valore di centinaia di milioni di dollari.
Eppure numeri di telefono, indirizzi e altri dettagli collegano queste scatole vuote a imprese e individui già colpiti in passato dalle sanzioni statunitensi durante la presidenza Trump. Per gli esperti di C4ADS, «Ocean Glory si è trasformata in una sorta di super-broker del greggio sanzionato», capace di fornire soluzioni finanziarie e operative a Teheran, Caracas e, più recentemente, Mosca.
Uno dei passaggi centrali messi in luce dal Financial Times riguarda proprio il ricorso alle ipoteche. In tempi normali, un carico di petrolio è garantito da una lettera di credito bancaria, che assicura il pagamento al venditore una volta consegnata la merce. Ma le sanzioni hanno escluso l’Iran dal circuito bancario internazionale, rendendo impossibile questa prassi.
Da qui l’idea: sostituire le banche con un sistema parallelo, affidandosi a ipoteche navali registrate a Panama e validate da studi legali svizzeri. Una soluzione “legale” dal punto di vista formale, ma che di fatto ha reso possibile una rete commerciale illegale agli occhi di Washington.
Gran parte delle navi coinvolte operava nella cosiddetta flotta ombra – già raccontata e da Linkiesta lo scorso autunno grazie alle inchieste di Massimiliano Coccia – che spegne i sistemi di tracciamento, effettua trasbordi in mare aperto e cambia bandiera o nome per confondere i controlli.
Un esempio emblematico è la Ceres I (ex Affluence), che nel novembre 2019 trasportò due milioni di barili di greggio iraniano nello Stretto di Malacca. Il carico, formalmente malese, approdò in Cina settimane dopo. Un’altra petroliera, la Skadi, compare in più operazioni documentate: prima per il greggio venezuelano, poi per quello russo.
Secondo le stime di C4ADS, tra il 2019 e il 2024 le navi ipotecate da Ocean Glory hanno trasportato centotrenta milioni di barili, con un valore stimato vicino ai dieci miliardi di dollari. Il novantatré per cento delle forniture è arrivato in Cina, consolidando Pechino come il principale cliente del petrolio sanzionato.
Perché tanto sforzo per garantire forniture a rischio? Perché la Cina, principale importatore mondiale di greggio, ha un bisogno costante di fonti energetiche a basso prezzo. E i carichi di Iran, Venezuela e Russia arrivano con sconti significativi, proprio perché difficili da piazzare sui mercati ufficiali.
Non è un caso che molti dei prestanome cinesi legati alle società armatrici risultino collegati a reti commerciali già coinvolte in triangolazioni petrolifere. In alcuni casi, numeri di telefono e indirizzi portano a compagnie cinesi finite nelle black list americane.
Da Pechino, la risposta ufficiale è sempre la stessa: «La cooperazione normale tra Paesi, nel rispetto del diritto internazionale, è giustificata e legittima», ha detto al Financial Times il Ministero degli Esteri cinese, ribadendo l’opposizione alle «sanzioni unilaterali illegali».
Negli ultimi anni, il Tesoro degli Stati Uniti ha progressivamente sanzionato diverse delle navi coinvolte, compresa la Ceres I. Nel dicembre 2024, le misure hanno colpito direttamente Ocean Glory, formalmente descritta come «una società di facciata iraniana, che si presenta come broker indipendente».
Secondo Claire Jungman, analista di Vortexa, «il ricorso a ipoteche navali al posto delle lettere di credito mostra la crescente audacia delle reti petrolifere iraniane, che hanno costruito un modello esportabile anche alla Russia». Non a caso, dall’inizio della guerra in Ucraina molte delle stesse navi hanno cominciato a trasportare greggio russo.
Il risultato è che oggi, nonostante gli sforzi occidentali, la Cina importa oltre 3,5 milioni di barili al giorno da Iran e Russia, circa un terzo delle sue importazioni totali. Una quota resa possibile proprio da meccanismi come quello orchestrato da Ocean Glory e dai suoi consulenti.
L’inchiesta del Financial Times mette in evidenza quanto sia difficile fermare simili reti. «Sono costruite per essere ridondanti e opache», osservano gli esperti di C4ADS: se una nave viene sanzionata, se ne compra un’altra; se una società viene chiusa, ne nasce subito una nuova con un nome diverso.
Il modello iraniano, nato per sopravvivere a decenni di embargo, si è trasformato in una scuola di resistenza commerciale a cui oggi attingono anche Mosca e Caracas. E, come sottolinea il Financial Times, il centro di questa architettura resta quell’ufficio di Zugo, dove nel 2019 tutto ebbe inizio.
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