Il bipolarismo del web, e il significato dimenticato del manicheismo

Si fa presto a dire manicheo. Quante volte ci viene da usare questo epiteto, di fronte ai ferrei aut aut, alle faglie cruente del discorso pubblico contemporaneo. Gli storici delle religioni ti zittiscono subito, ricordando che il manicheismo non era quella roba lì, bianco o nero, o con me o contro di me, o di qua o di là, che era un pensiero ben più sofisticato, una variante della gnosi, un’eresia di élite del cristianesimo delle origini. E che non è colpa di Mani, il fondatore, nato e vissuto vicino a Babilonia, nella terra tra i due fiumi, quasi duemila anni fa, se oggi abbiamo i Trump e i Maduro, i fratelli Sinwar e gli Smotrich, i Travaglio e i Porro, le femministe di fascistella e le loro liste nere, i call out e gli shit storm, gli studenti proPal che negano la parola a Emanuele Fiano e gli invasati proBibi che ti bollano come antisemita se osi dire che non è carino sradicare gli ulivi dei palestinesi, i pacifisti spaccavetrine e i fratellini d’Italia che fanno il karaoke col duce, quelli che Sinner non è un patriota e quelli che gridano scemo ad Alcaraz, i fan di Stasi o di Sempio. Anche se ognuno di loro è convintissimo di lottare per il bene contro il male, nessuno merita la qualifica di manicheo. Sarebbe fargli troppo onore.
Parliamo di Mani, piuttosto. Di lui si sa che nasce il 14 aprile del 216 nel villaggio di Mardinu, in Mesopotamia, e che suo padre, spirito inquieto alla ricerca di uno stile di vita ascetico, lo porta con sé in una comunità di battisti giudeo-cristiani, gente che si immerge nell’acqua per purificarsi (oh, sia chiaro, non l’ho copiato da Wikipedia, e neanche dall’Intelligenza artificiale, ma dal libro di Andrea Piras, Manicheismo, Editrice Morcelliana, 2022). Fin da piccolo, Mani racconta di avere incontrato un angelo, il suo Gemello celeste, che lo consiglia su come agire, lo dota di superpoteri, come la levitazione e l’ubiquità, e lo porta in luoghi indescrivibili, dove può vedere le cose dall’alto (chi di noi, da bambino, non ha avuto un amico immaginario?). È così che scopre la sua vocazione di apostolo di Gesù Cristo, di profeta di una nuova religione universale: «Sono partito dalla terra di Babilonia per lanciare un grido nel mondo».
Mani vede il cosmo come un combattimento incessante tra luce e tenebre, tra vita e morte. Divide l’umanità in due gruppi: i salvati e i dannati. E promette la salvezza a coloro che lo seguiranno e cambieranno il proprio modo di vivere. Al centro della sua predicazione pone la conoscenza, la gnosi, unica strada verso la liberazione dell’individuo dai vincoli del corpo e della materia, e per il ritorno a quel mondo di beatitudine perduta da cui si staccò la particella di luce che forma l’anima dell’uomo.
Ha fama di medico, di guaritore capace di grandi prodigi e anche di esorcista che sa come scacciare demoni e streghe. Principi e re dell’epoca se lo contendono, e la platea dei suoi follower si allarga ogni giorno a nuove province dell’Asia, fino alla Cina. E pensare che la natura non lo ha favorito. Gli avversari (e ne ha tanti e potenti, soprattutto tra gli Zoroastriani, i seguaci di Zarathustra) lo dipingono come zoppo dalla nascita, tanto da dover usare una speciale suola ortopedica. Ma quella che sembra una menomazione, il segno corporeo di un male spirituale, può essere letta alla rovescia, come l’attributo di una personalità eccezionale capace di camminare in luoghi preclusi alla gente comune. Sulle orme degli angeli, appunto.
Succede poi, com’era prevedibile, che Mani cada in disgrazia, vittima delle trame del sacerdote di corte del re sassanide Wahram I, il perfido Kirdir, zoroastriano di ferro. Il sovrano lo convoca nella sua reggia in Khuzestan, una provincia dell’Iran, e gli dice a brutto muso: «Che bisogno c’è di te, visto che non sai né combattere né andare a caccia?». Il profeta sessantenne viene flagellato e incatenato con pesanti ceppi alle mani, ai piedi, al collo. Le carceri iraniane dell’epoca non erano certo meglio di quelle degli Ayatollah di oggi, e dopo ventisei giorni di atroci sofferenze, Mani muore il lunedì 26 febbraio dell’anno 277. Il suo corpo è vegliato da tre pie donne, ma secondo le usanze dell’epoca, gli passano sopra delle torce per verificare che sia morto sul serio. Dopo di che – narrano i discepoli – la sua anima sale al Cielo: «Si svestì dell’abito guerriero del suo corpo e prese posto nel Vascello di Luce». Una specie di astronave, che lo trasporta al cospetto di Dio, ben più potente di ogni monarca terreno.
Il manicheismo oggi è una religione fossile, senza fedeli e senza chiese. L’hanno abbandonata da secoli anche gli uiguri, nel nordovest della Cina, dove per un po’ fu addirittura religione di stato, e passando di lì Marco Polo, nel 1292, aveva ancora trovato qualche sparuto superstite. Il grido di Mani si è spento per sempre. A meno di pensare che lo abbiano raccolto i militanti Maga (Magachei?), che vedono in ogni democratico un pericoloso socialista, un traditore della patria, un nemico da mettere in galera. Comunque un dannato che ha rifiutato l’illuminazione. O sull’altra sponda, i fan più entusiasti del nuovo sindaco di New York Zohran Mamdani, i Mamdanichei, che già ora se ti mostri scettico sui trasporti gratis o sui supermercati pubblici, sei un servo dei miliardari di Wall Street (personalmente gli auguro e mi auguro che riesca a mantenere le promesse, ma chissà).
Ma tornando a Mani, dobbiamo evitare di banalizzare il suo messaggio. La verità è che, se vivesse oggi, non verrebbe incatenato e torturato, tutt’al più affidato alle cure di un bravo psichiatra. Perché questa contrapposizione tra i due regni, luce e tenebre, può essere il sintomo di una distorsione cognitiva, fonte a sua volta di depressione o di altri gravi disturbi della personalità. Si chiama pensiero dicotomico, ed è la tendenza a vedere le situazioni, le persone e gli eventi in termini di due estremi opposti e assoluti, bianco o nero, bene o male, amico o nemico, senza considerare le sfumature o le possibilità intermedie. È una sindrome di cui ci stiamo ammalando un po’ tutti.
Grazie a Internet e ai social. Non è più possibile dire che sei d’accordo al cinquantuno, o al sessanta o perfino all’ottanta per cento con un’affermazione, con un’idea o con una causa, come di solito avviene nei sondaggi d’opinione. Ormai ti si chiede di aderire in toto, senza riserve o distinguo di sorta. E se provi a esprimere qualche ragionevole titubanza, vieni immediatamente sbranato come complice del genocidio, o di Hamas, o della Nato, del patriarcato colonialista, di Meloni o delle toghe rosse. E se non vieni privato seduta stante del diritto di parola, la tua voce diventa impercettibile, coperta dagli schiamazzi delle due orde rivali.
Come scrive Giuliano da Empoli nel suo bel libro L’ora dei predatori (Einaudi): «Le piattaforme si presentano come una vetrina trasparente attraverso cui contemplare il mondo così com’è, libero dai preconcetti delle élite che controllano i media tradizionali, ma non sono altro che specchi da luna park, che distorcono la realtà fino a renderla irriconoscibile per adattarla alle aspettative e ai pregiudizi di ognuno di noi».
Aggiungerei che il bello dei social (e dei talk show) è che, mentre giocano a contrapporre il bene al male, il giusto all’ingiusto, secondo un rigido schema dicotomico, poi mettono sullo stesso piano verità e menzogna in nome della libertà di opinione. Nel suo battibecco in tv, diventato virale, con Jeffrey Sachs sulla rivoluzione di Euromaidan in Ucraina, Carlo Calenda ha avuto il merito di squarciare finalmente il velo su questo equivoco: non si può continuare a prendere la gente per i fondelli, bisogna tracciare una chiara linea di demarcazione tra fatti e propaganda.
Se c’è un insegnamento di Mani che mantiene la sua attualità, è la centralità della conoscenza. Luce e tenebre non sono due entità esterne a noi, sono due principi contrapposti che si combattono e si mescolano dentro ciascuno di noi. Non per niente Carl Gustav Jung si era interessato alla gnosi come tecnica di indagine sulla coscienza, quasi un primo tentativo di psicoanalisi.
Forse, per contrastare la deriva del pensiero dicotomico, dobbiamo diventare un po’ manichei, nel senso vero della parola. Sottrarci allo specchio deformante dei social. Imparare a guardarci dentro e ad accettare le nostre contraddizioni e le imperfezioni del mondo, senza scomuniche, senza crociate, senza odi preconcetti. Penso alle varie anime dell’opposizione di centrosinistra. Invece di perdersi nelle nebbie del campo largo, sarebbe meglio tentare sentieri nuovi, trasversali, sghembi, poco battuti, che spiazzino l’avversario. Come i democratici americani: cos’hanno in comune un musulmano socialista e una ex agente della Cia (Abigail Spanberger, nuova governatrice della Virginia)? Ben poco, in apparenza. Quasi come i due regni di Mani. Ma insieme, forse, potrebbero riuscire a mandare Trump in pensione.
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