Il gelato di Renzi e l’insofferenza delle élite per i leader popolari

Novembre 8, 2025 - 22:30
 0
Il gelato di Renzi e l’insofferenza delle élite per i leader popolari

Senza escludere che possa avere un futuro, ne parleremo al passato. Mariano Rumor, cinque volte presidente del Consiglio dei ministri tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Settanta, laurea in Lettere all’Università di Padova nel 1937 con una tesi su Giuseppe Giacosa, non aveva, sui problemi dell’Italia, idee più raffinate o più profonde di quelle che aveva Matteo Renzi. E non le aveva neppure Emilio Colombo, presidente del Consiglio dall’estate del 1970 al febbraio del 1972. E neppure le avevano Oscar Luigi Scalfaro, Sandro Pertini, Giovanni Spadolini. Loro non ne sapevano di più, lui non ne sapeva di meno. Anzi, dato che Renzi, a differenza di alcuni di quelli che ho citato, ha lavorato nella politica e nella pubblica amministrazione sin dalla post-adolescenza, è probabile che l’eventuale deficit di esperienza, di conoscenza dei problemi, non vada messo a suo carico.

Ma Rumor assomigliava al preside del mio liceo classico, un mite sessantenne torinese esperto di Tucidide, mentre Renzi aveva una somiglianza impressionante, sia nel fisico sia nell’atteggiamento sia nel linguaggio, con un tale che incontro spesso nella mia palestra di Firenze, un tale che in palestra ci va soprattutto per chiacchierare, per dire la sua, per lo più a vanvera, nei crocchi che si formano attorno agli attrezzi o negli intervalli tra un corso di aerobica e un corso di pilates.

Non tutta, ma una parte considerevole della ripugnanza che molti – e anch’io all’inizio – nutrivano nei confronti di Matteo Renzi era dovuta a questa specie di pregiudizio estetico: un uomo politico serio dovrebbe assomigliare, nel fisico, nell’atteggiamento e nel linguaggio, più a Mariano Rumor (o a Enrico Letta) che al medio frequentatore delle palestre fiorentine.

Dovrebbe evitare di indossare un giubbotto di pelle alla Fonzie per farsi fotografare sulla copertina del settimanale «Chi»; dovrebbe evitare – unico tra gli uomini di governo occidentali – di vuotarsi addosso un secchio d’acqua ghiacciata per sensibilizzare il pubblico sul problema della SLA; dovrebbe evitare di parlare l’italiano popolare che parlava Renzi, di infarcire i suoi discorsi di cliché, battutine da due soldi e slogan da imbonitore («Non gettare la palla in tribuna», «L’Italia deve fare l’Italia», «Un’Italia che sia leader e non follower», «Non ho paura dei giudizi, ho paura dei pregiudizi»), non dovrebbe salutare il vicepresidente americano col pollice alzato, offrire coni gelato nel cortile di Palazzo Chigi, fare jogging con la maglia della Nazionale di calcio, passare in rassegna le truppe dell’esercito in jeans e mimetica, citare una poesia di Borges che non è di Borges, scrivere su Twitter «Dal profondo del cuore: buona #festadellamamma», mescolare il serio della politica col faceto della cultura pop citando i cartoni animati di Mila e Shiro, gli amori tra Ridge e Brooke in Beautiful, le canzoni dei Muse, di Samuele Bersani («È bella la cicatrice che mi ricorderà d’essere stato felice»), di Ligabue («Non è tempo per noi»), di Gigliola Cinquetti («Non ho l’età per essere senatore»), i telefilm della Famiglia Addams.

Dovrebbe evitare, in breve, di comportarsi come si comportava Renzi, scrivere come scriveva Renzi, parlare come parlava Renzi, dire le cose che diceva Renzi, farsi i selfie come Renzi, essere Renzi.

Se all’espressione «linguaggio della politica» diamo, com’è giusto, il senso ampio di «modo di essere, di usare le parole, le pause, gli sguardi, i gesti, la prossemica», è chiaro che i problemi che una parte degli italiani aveva con Matteo Renzi riguardavano non tanto, o non ancora, le sue idee politiche o la sua prassi politica, ma il suo linguaggio. È al linguaggio, non alla politica, che pensavano i suoi avversari quando, cinque o sei anni fa, domandavano ironicamente «Ve lo immaginate Matteo Renzi a colloquio con Angela Merkel?». È intorno al linguaggio, non intorno alla politica, che ruotava la gran parte delle critiche che Ferruccio De Bortoli ha fatto a Renzi nei suoi editoriali del 2015: il «maleducato di talento», l’ego ipertrofico, il megalomane che parla di sé in terza persona, il premier «con la tendenza alla pinguedine». Il linguaggio, non la politica. Nessuno ha mai rimproverato a Mariano Rumor di non essere abbastanza snello.

Da questi esempi si capisce dunque che la questione del linguaggio si precisava come questione di raffinatezza, di uso del mondo, di adesione al profilo ideale che persone come D’Alema o De Bortoli pensano debba essere il profilo di un presidente del Consiglio: un profilo più simile a quello di Mariano Rumor, o del preside del mio liceo, che a quello del mio compagno di palestra.

In questo profilo ideale entra come primo connotato la capacità di distanziarsi dalla società dello spettacolo e dalle arti pop. Nelle biografie malevole di Matteo Renzi ha sempre un posto di rilievo la notizia della sua partecipazione, a diciannove anni, alla Ruota della fortuna di Mike Bongiorno. Allo stesso modo, nelle biografie malevole di Berlusconi c’è sempre una linea di continuità che collega il fondatore di Forza Italia e il presidente del Consiglio al cantante da crociera ventenne, con Fedele Confalonieri al pianoforte. Era un lavoro estivo, dunque se si vuole anche un segno di laboriosità, ma era un lavoro per istrioni, e in quell’istrione è sin troppo facile vedere i sintomi del futuro Grande Buffone. E allo stesso modo, nel libro La canottiera di Bossi, Marco Belpoliti parla per due pagine del giovane Bossi che a cavallo tra gli anni Cinquanta e i Sessanta tenta la carriera di cantante, «e gira per le balere con la sua band facendo il verso ai cantanti dell’epoca». Le balere, non le discoteche; fare il verso, non fare le cover: così uno può immaginarselo già in canotta bianca a vent’anni, mentre fa il gesto dell’ombrello. Partecipa anche al Festival di Castrocaro, ma con poca fortuna. Non solo cantante: cantante fallito.

C’è qualcosa di sminuente, nel suonare o cantare in pubblico, o nel partecipare a un quiz televisivo, e non importa se lo si fa a vent’anni, quando tutti fanno o potrebbero fare di tutto, e anzi quando la tendenza ad astenersi, a pensare alla bienséance è spesso un cattivo segno, il segno di un carattere debole, poco simpatico, poco adatto alla vita. Il pensiero implicito, a volte esplicitato, è che Berlusconi, Bossi o Renzi fanno politica con lo stesso spirito con cui suonavano sulle navi, o partecipavano ai quiz, o «giravano per le balere»: per narcisismo, voglia di farsi vedere, precoce adesione ai requisiti della società dello spettacolo. «Un fatto di colore […], in un personaggio in cui il colore – ovvero lo stile, l’abito e i gesti, oltre alle parole – è tutto, riveste un ruolo significativo» (Belpoliti). Non essendo o non dovendo essere, la politica, un pezzo della società dello spettacolo, questa compromissione col pop è indice di poca serietà, di una confusione di piani che all’epoca di Mariano Rumor non sarebbe stata neppure pensabile. L’intrattenitore da crociera, il concorrente alla Ruota della Fortuna, l’aspirante cantante sarà a disagio, farà brutta figura – e la farà fare all’Italia – quando si troverà nel consesso delle persone serie.

È un punto di vista comprensibile, ma l’impressione è che questa lezione intorno al buon uso del mondo rispecchi ormai un mondo che non esiste più. Vale a dire che la quantità del cambiamento indotto dai media (radio, TV, internet) potrebbe aver modificato la qualità del linguaggio politico in una misura tale da rendere anormali, invotabili, uomini come Mariano Rumor, e normalissimi e votabilissimi, invece, uomini come Renzi.

 

Tratto da “Il pop e la felicità”, di Claudio Giunta, Mondadori, 468 pagine, € 22,00 

L'articolo Il gelato di Renzi e l’insofferenza delle élite per i leader popolari proviene da Linkiesta.it.

Qual è la tua reazione?

Mi piace Mi piace 0
Antipatico Antipatico 0
Lo amo Lo amo 0
Comico Comico 0
Furioso Furioso 0
Triste Triste 0
Wow Wow 0
Redazione Redazione Eventi e News