Il giorno in cui credetti di liquefarmi il cervello e divenni scrittore

Novembre 7, 2025 - 18:00
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Il giorno in cui credetti di liquefarmi il cervello e divenni scrittore

Con chi mi legge oggi (tempo presente e anche storico) sono in debito di una angoscia, lasciata in sospeso alla fine della puntata precedente. Come disse il poeta (una volta nella vita vorrei dire, dico, come disse il poeta): tra la fine della condanna che bandì Chatterly e il più grande incremento di immatricolazioni d’autoveicoli dalle origini ai giorni nostri (quei giorni miei), ecco, a quel tempo conobbi l’angoscia. (Per il poeta, al contrario, fu quello il suo miglior tempo, l’annus mirabilis, l’anno di inizio delle sue tardive meraviglie sessuali.)  

Ero tra il ragazzino e il ragazzo, ero io tutti e due, cioè finivo di essere ragazzino e diventavo ogni giorno più ragazzo. Cominciavo a uscire da solo, mi allontanavo da casa sull’autobus, sul tram, godevo del servizio di entrambi. Anzi di più: i tram erano doppi, tram blu e tram verdi, anche tripli perché c’era la circolare, che faceva parte dei tram verdi ma la circolare è un’altra cosa, gira e rigira, fa un cerchio, non come i tram normali che sono lineari, o vanno o vengono.  

Insomma, tra le altre cose, a quel tempo mi soffiavo il naso. In assoluta autonomia, voglio dire, ero padrone delle mie azioni. Mi soffiavo il naso, e capitava alle volte che guardassi, allontanando il fazzoletto ancora un poco aperto, quel che dal naso era venuto fuori. Niente di che: acquerugiola, rugiada collosa. Non sto parlando di raffreddori, sto parlando di soffiate normali, per il freddo al naso, per un prurito, per liberare il respiro, per mascherare una pernacchia, anche (l’ho fatto, sì, assistendo in maniera monellesca ai primi teatrini sperimentali di quel secolo, in una confusione di frequenti tamburi e strilli pagliacceschi da circo e falsetti da primedonne all’ultima spiaggia). E avvenne che.

Avvenne che mi soffiavo il naso e sempre apparivano indizi di qualcosa in quelle filanti trasparenze, davvero limpide, cristalline (producevo cristalli liquidi?). Apparivano strie però grigiastre, dal grigio chiaro all’antracite, come quelle venature nel marmo candido, nel mio caso un marmo trasparente e molle. 

Capii, anzi decisi subito e senza incertezza: stavo perdendo il cervello dal naso. La materia grigia. Ecco a che serve andare a scuola, acquisisci conoscenze e competenze. Mi scendeva dal naso la materia grigia, era possibile? Possibilissimo. Cos’altro c’è di grigio in un corpo? Ho letto Melville: l’ambra grigia, ma sta nell’intestino dei capodogli e viene espulsa in tutt’altro modo. Era cervello, basta, era il mio cervello. Abbiamo studiato gli egizi, che altre prove vado cercando, era dal naso che estraevano il cervello delle mummie con una specie di uncinetto, l’adunca asticciola per i lavori a crochet, so di che parlo, parlo del mio cervello che veniva giù a catenelle, che è il punto base delle lavorazioni all’uncinetto.  

Mi soffiavo il naso e sempre c’era, a puntini, a strisce, più o meno opache, più o meno insistenti nella limpidezza dei miei filamenti di mollezza adamantina e perle affabili di bollicine d’aria che non riuscivano a rassicurami, sempre c’era la testarda presenza del mio cervello in filacce, così fuori di me.

Facciamola breve (vediamo se ci riesco).

Perdevo il cervello dal naso, ero certo. Ispezionavo il naso con la cocca del fazzoletto (l’ho detto che usavo fazzoletti di cotone?) o spingendo nella narice una cupola di tessuto col dito sotto. Il riscontro era sempre lo stesso: strie, puntini, sbaffi di materia grigiastra, il mio cervello; erano addirittura visibili i miei pensieri oscuri e cupi. Spiavo in me attraverso la serratura a due toppe del naso, anche se a questo non ho mai pensato, lo dico adesso per fare una bella figura retorica (mah, mica tanto).

Il mio fazzoletto sembrava la luna, candida con sulla superficie macchie e chiazze irregolari del mio cervello perso (ma allora è vero che i cervelli persi finiscono tutti lì). La luna, il mio goccio di moccio in cielo, in tutte le sue fasi da crescente a colante. E ti pareva che non ci avesse già pensato Giacomino: “O graziosa luna, io venia pien d’angoscia a rimirarti”, guardava anche lui nel fazzoletto, nel quale anche lui perdeva il cervello. 

Angoscia, animo oppresso rimirando la luna, il fazzoletto. Scrivere di sé è come starnutirsi addosso, con l’aggravante che gli scrittori di genio spruzzano brani del loro cervello, è normale.

È più semplice farla semplice di quanto sia difficile farla difficile. È così, era così. I primi giorni furono davvero angosciosi. Non potendo trattenere dentro di me il mio cervello, tenevo dentro di me il fatto tremendo di perderlo dal naso. A esporre la propria nudità per trovare consolazione non ci vuole niente, altra cosa è mettere in mostra il proprio fazzoletto cervellotico, non se ne parla proprio.

Rimasi così non so per quanto tempo, con quel che restava del mio cervello in testa, e con quello che ne avanzava in tasca. Decisi che non avrei fatto altro che scrivere da allora in poi (quale poi?), per due buoni motivi: il primo è che avevo una testa diciamo esuberante, estroversa, il secondo è che la stavo perdendo (il secondo sarebbe via via diventato il primo, aggiungendo un tocco di credibilità alla mia vocazione).

Come andò a finire? (È questa la domanda squittita da una timida voce ansiosa, credo in quarta, quinta fila.)

Come andò a finire? Come al solito va a finire nei romanzi scadenti che imitano la vita ma non la vivono. Tutto finì con una spiegazione ragionevole, logica ossia più grigia della materia della quale è fatto il mio racconto. 

Come nei gialli migliori ho fornito elementi, ho già rivelato qualcosa all’inizio, ho citato il poeta per dirlo senza dirlo: tutto accadde tra la fine della condanna che bandì Chatterly e il più grande incremento di immatricolazioni d’autoveicoli dalle origini ai giorni nostri. L’ho detto: finivo di essere ragazzino e diventavo ogni giorno più ragazzo, cominciavo a uscire da solo, mi allontanavo da casa sull’autobus, sul tram. 

Insomma, lo smog, l’inquinamento, gli scarichi da combustione, il mio naso non aveva mai conosciuto tanto movimento di mezzi e si trovò da un giorno all’altro a respirare il traffico. Non era il mio cervello a uscire dal mio naso, era il vagante e nebbioso cervello pulviscolare del mondo che ci entrava e il mio muco come il vischio catturava le polveri volatili, che io poi spruzzavo in stile action painting nel fazzoletto quasi fosse una tela. Ci avessi pensato sarei diventato pittore gestuale, avrei potuto davvero esporre i miei fazzoletti, non ci pensai, non lo feci, l’ho già detto, menomale, o non so. 

Ci arrivai da me a spiegare il fenomeno. Ma già avevo risolto: non guardavo più nel fazzoletto, guardavo la pagina bianca, ci scrivevo sopra ossia mi starnutivo addosso lasciando sulla pagina brani del mio cervello. Insomma, continuo a sperperarlo, è più vero adesso che prima, quando ero ragazzo e mi soffiavo il naso nella luna, sulla luna.

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