L’abisso morale di un Occidente diviso tra Netanyahu e Albanese

Nell’invitare alla cautela sulle concrete possibilità di realizzazione del piano di Donald Trump per la Palestina, di cui pure si augura il successo, Thomas Friedman scrive sul New York Times che «l’assassinio indiscriminato di tanti israeliani davanti ai propri figli, e di bambini davanti ai propri genitori, oltre al rapimento di neonati e anziani», da parte di Hamas, il 7 ottobre 2023, e «la rappresaglia spesso indiscriminata di un esercito israeliano pronto ogni giorno a uccidere e mutilare decine di civili e bambini palestinesi per catturare un solo combattente di Hamas, riducendo Gaza in macerie», potrebbe aver fatto qualcosa che «nessuna precedente guerra arabo-israeliana era mai riuscita a fare: rendere il necessario, ovvero raggiungere la pace, impossibile». Mai, in una vita passata a seguire la questione mediorientale, Friedman ricorda di aver visto una situazione simile, in cui l’odio e la sfiducia reciproca hanno raggiunto un tale livello.
Leggendo queste parole non ho potuto fare a meno di ripensare all’atroce episodio di cui ha scritto ieri Maurizio Crippa sul Foglio, immortalato in un video che ieri ha fatto il giro dei social network (potete vederne la versione integrale cliccando qui). In breve, la relatrice speciale dell’Onu Francesca Albanese rimprovera il sindaco di Reggio Emilia, Marco Massari, che si trovava con lei sul palco per consegnarle un premio (ben gli sta). La colpa di Massari? Avere detto semplicemente di ritenere che «la fine del genocidio e la liberazione degli ostaggi siano condizioni necessarie per avviare il processo di pace», scatenando immediatamente i fischi e le urla della platea, e non certo per la scelta del termine «genocidio». Contestazioni cui si è prontamente unita Albanese, dicendo che il sindaco «si è sbagliato», perché «la pace non ha bisogno di condizioni». Per poi spiegare che «qui non stiamo parlando di una guerra, stiamo parlando di mettere fine a un’occupazione coloniale», e certo «nessuno giustifica i massacri del 7 ottobre», come non si giustificano le violenze dell’Algeria contro i coloni francesi, perché «la violenza non è mai giustificata, però non possiamo lasciare i palestinesi abbandonati a quella mostruosità e poi condannarli pure e giudicarli» (affermazione, quest’ultima, che evidentemente nega in radice tutte le concessioni precedenti e seguenti sulla necessità di condannare i massacri del 7 ottobre).
E dunque certo che sono stati commessi «crimini efferati, massacri, chiamateli come volete», certo che il 7 ottobre va condannato («ma quante altre volte lo dovremo condannare?»), «ma Tiziano Terzani ci diceva che non bisogna giustificare i terroristi, però capirli, chiedersi che cosa chiedono, che cosa vogliono, e alla fine la storia si ricorderà di questo: che sono riusciti a portare la Palestina di nuovo al centro della discussione, stanno animando una rivoluzione globale, che ci sta facendo pensare non solo a chi sono loro, a chi siamo noi…». Sarei tentato di riportare l’intero discorso, perché ogni parola mi fa accapponare la pelle, e nonostante tutto conservo ancora la speranza che faccia lo stesso effetto a tutti, anche a tante di quelle bravissime persone che ogni giorno cantano le lodi di Francesca Albanese e vorrebbero addirittura candidarla al Nobel per la Pace. Ma dentro di me so che non è così, che la sincera indignazione per i crimini di Benjamin Netanyahu le rende completamente cieche e sorde alle sofferenze di uomini, donne e bambini innocenti rinchiusi da quasi due anni nei tunnel di Hamas, sottoposti in questo stesso momento a sofferenze inimmaginabili, per la sola colpa di essere nati nel posto sbagliato. Persone di cui non si deve nemmeno osare chiedere la liberazione.
Albanese conclude infatti il suo discorso dicendo al sindaco che lo perdona, bontà sua, ma lui deve prometterle «che questa cosa non la dice più». Chiaro? Guai a chiedere pietà per uomini, donne e bambini israeliani rapiti dai tagliagole islamisti di Hamas. In fondo, a parti rovesciate, è la stessa spaventosa cecità che caratterizza i pochissimi e sempre più grotteschi sostenitori di Netanyahu rimasti su piazza, capaci di negare o giustificare il massacro indiscriminato di decine di migliaia di uomini, donne e bambini palestinesi. Vorrei davvero illudermi che almeno una delle tante persone che a suo tempo mi hanno rimproverato per avere definito la relatrice speciale dell’Onu l’Alessandro Orsini del Medio Oriente, di fronte a questo spettacolo, potesse avere un sussulto, un dubbio, un ripensamento. Ma so che non accadrà. Di questo passo, semmai, temo che a me toccherà chiedere scusa a Orsini.
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