Ma perché dobbiamo fare tutto noi?

Novembre 8, 2025 - 22:30
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Ma perché dobbiamo fare tutto noi?

C’era un tempo in cui bastava dire «un chilo di mele» perché qualcuno più competente e preparato di noi le scegliesse, le pesasse e le incartasse, spesso chiedendoci o ricordandosi le nostre preferenze, con un sorriso e spiegandoci da dove venivano e perché ci sarebbero piaciute. Un tempo in cui il vino veniva aperto e versato da mani esperte, il pane consegnato in un sacchetto ancora caldo, la spesa portata fino all’auto. Oggi, invece, tutto questo lo facciamo da soli. Pesiamo, imbustiamo, battiamo i codici alla cassa automatica, sparecchiamo il nostro vassoio e spesso perfino prenotiamo, ordiniamo e paghiamo senza che nessuno ci rivolga la parola. Quando entravamo in un bar potevamo essere certi che sarebbe arrivato qualcuno a salutarci, e a chiederci che cosa avremmo voluto bere: oggi se non passiamo prima al banco, ordiniamo e poi aspettiamo con un aggeggio che suona quando la nostra comanda è pronta possiamo star seduti ore senza che nessuno si accorga della nostra presenza, anzi, del nostro bisogno.

L’autonomia del consumatore è diventata un dovere. Dietro la cortina di efficienza e di libertà di scelta, si nasconde un’economia del risparmio: meno personale, meno costi, meno complessità. È la conseguenza di un mercato che fatica a trovare lavoratori disposti – o formati – per il servizio, ma anche di un’epoca che ha trasformato il cliente in ingranaggio del processo produttivo.

Nei supermercati pesiamo la verdura, nei fast casual scansioniamo un QR code per ordinare, nei wine bar ci serviamo da soli con il dispenser automatico. Anche nei ristoranti di fascia media, dove un tempo c’era il maître che consigliava, oggi ci si arrangia: il menu è digitale, il vino si sceglie a caso o tramite un’app. È il trionfo del fai-da-te alimentare, che non riguarda solo il gesto, ma il senso stesso del consumo.

Perché in questa trasformazione non si perde soltanto un servizio, ma una relazione. Il fruttivendolo che conosceva i gusti del quartiere, il cameriere che suggeriva un piatto, il sommelier che raccontava un territorio: figure che custodivano un sapere e lo restituivano, costruendo fiducia e valore. Oggi tutto questo si dissolve in un clic. Certo, c’è anche un’altra faccia della medaglia. L’autoservizio è più veloce, apparentemente più comodo. Ci fa risparmiare qualche minuto, ci dà la sensazione di controllare il processo. Ma quel che perdiamo è la mediazione umana, la cura invisibile, l’esperienza del servizio come parte integrante del piacere gastronomico.

È un segno dei tempi, e non solo del mercato. Perché la scarsità di personale non è che la conseguenza di un sistema che ha smesso di attribuire valore al lavoro di servizio, riducendolo a costo. E allora il cliente si sostituisce al cameriere, il consumatore diventa addetto al banco, il viaggiatore si fa check-in da solo. «Ma perché dobbiamo fare tutto noi?» non è solo una domanda ironica. È la sintesi di un disagio silenzioso, quello di chi si ritrova a fare da sé anche nei momenti che un tempo erano dedicati al piacere, alla relazione, al tempo sospeso. E forse è qui la vera perdita: non tanto il servizio, quanto l’attenzione reciproca che il servizio rappresentava.

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Redazione Redazione Eventi e News