Mamdani, e la battaglia per l’anima del Partito Democratico

New York ha un nuovo sindaco e non somiglia a nessuno dei precedenti. Zohran Kwame Mamdani ha trentatré anni, è figlio di migranti ugandesi e indiani, si autodefinisce socialista. Ha appena vinto le elezioni amministrative con l’ambizione di trasformare la sua campagna elettorale in un manifesto per la sinistra del ventunesimo secolo. Niente rivoluzioni, nessuna promessa di redenzione morale. Solo un programma costruito attorno alla paura che ossessiona New York da anni: il costo della vita. Nei comizi la chiamava “Halalflation”, l’inflazione dei poveri: quella che fa salire i prezzi dei kebab, degli affitti, dei trasporti.
Mamdani ha parlato più volte di autobus gratuiti, asili per tutti, blocco degli affitti e supermercati di proprietà comunale. Progetti irrealizzabili, destinati a rimanere su carta, nella propaganda della campagna elettorale. Perché il costo della vita è un problema reale e opprimente per i newyorkesi – e in molte altre città degli Stati Uniti – ma nessuna delle idee proposte da Mamdani è davvero una soluzione percorribile.
La sua campagna è stata «la dimostrazione di quanto sia facile fondere le rispettive agende economiche della sinistra e del centro in qualcosa che suoni attraente per entrambi», ha scritto il New York Magazine, che al Partito Democratico americano ha dedicato la cover story di fine ottobre.
Ci sono due istantanee che raccontano bene la condizione attuale del Partito Democratico americano, spaccato tra una fazione più radicale e una moderata. Il primo è di una sera della scorsa estate, a Tulsa, in Oklahoma. Bernie Sanders sta chiudendo uno dei comizi del suo tour “Fighting Oligarchy” davanti a migliaia di persone in delirio. Sta per lasciare il palco quando un assistente gli porge un foglio: è un post di Donald Trump su Truth Social che annuncia un attacco aereo contro l’Iran. Sanders lo legge, scuote la testa, poi guarda la folla: «Questa è la dichiarazione di Donald Trump. Dice che abbiamo completato con successo il nostro attacco ai siti nucleari iraniani». La sala esplode in un coro di «No more war!».
È un momento di forte simbolismo. Da una parte il vecchio senatore socialista del Vermont, ancora convinto che la politica sia una lotta morale tra oligarchi e popolo. Dall’altra l’America di Trump, che preferirebbe essere re piuttosto che presidente, che impone la sua agenda illiberale con decisioni unilaterali. In mezzo, un Partito Democratico che non si riconosce allo specchio. «I lavoratori di tutto il Paese percepiscono correttamente che i Democratici, pur essendo stati risoluti sui diritti civili e sull’ambiente, hanno voltato le spalle alla classe operaia», ha detto Sanders in un’intervista durante il tour “Fighting Oligarchy”. È una diagnosi piuttosto lucida: il partito che per decenni ha rappresentato i lavoratori oggi è percepito come un club di élite, con tutte le buone intenzioni del mondo ma distante dai cittadini.
La seconda istantanea è di settembre. Un’altra corrente del Partito Democratico si è riunita a Washington in una convention dal nome ironico: Welcome Fest. I giornalisti lo hanno ribattezzato “il Coachella centrista” o, con più malizia, “Boring Man”. L’evento è organizzato dal Welcome Pac, un gruppo definito dal New York Times di «ribellione centrista». L’obiettivo è creare una nuova generazione di Democratici capaci di conquistare i distretti che a ogni tornata elettorale oscillano tra destra e sinistra. La loro Bibbia è “Abundance”, il saggio di Ezra Klein e Derek Thompson pubblicato a marzo che invita a «liberare il potere dello Stato per costruire di più, più velocemente, meglio». Non più tasse e redistribuzione, ma infrastrutture, edilizia, energia, tecnologia. «Se i Democratici tassano la gente per costruire ferrovie ad alta velocità, quelle ferrovie devono esistere davvero», scrive Klein.
Perfino Jacobin, la rivista di estrema sinistra, ha scritto che “Abundance” «dovrebbe essere accolto, non respinto, dalla sinistra», perché invoca uno Stato capace di fare, non solo di regolamentare. Il paradosso è che entrambi gli schieramenti, mentre litigano online, stanno dicendo la stessa cosa: l’America non sa più costruire. Infatti Mamdani non è l’archetipo perfetto del candidato democratico: ieri alle varie elezioni locali – cittadine o statali – in tutti gli Stati Uniti c’erano diversi esponenti del Partito Democratico che si presentavano con programmi politici molto moderati, centristi, distanti dall’ala radicale rappresentata da Sanders e Alexandria Ocasio-Cortez.
Nel Partito Democratico c’è quindi anche un progressismo pragmatico, produttivista, che sogna un «grande governo efficiente» invece di un welfare compassionevole. Per i suoi critici, è solo neoliberismo travestito; per i suoi sostenitori, è l’unico modo per sopravvivere nell’era post-Trump (l’ultimo commento di Klein sul New York Times si intitola proprio “Così si batte Trump – e il trumpismo”).
L’agenda è quella descritta da Christian Rocca lunedì parlando del manuale “Deciding to win”, cioè riposizionare il partito intorno a temi maggiormente sentiti dall’elettorato, ovvero la riduzione del costo della vita, la crescita economica, la creazione di posti di lavoro, e il rafforzamento del welfare: «Il suggerimento è quello di scegliere politiche economiche popolari (negoziazione prezzi farmaci, aumento del salario minimo) piuttosto che focalizzarsi su quelle meno gradite (sussidi ai veicoli elettrici); ma anche di dimostrare alla maggioranza degli elettori che il fronte anti Trump condivide le loro priorità (economia, costo della vita, sanità, sicurezza dei confini, criminalità); e, allo stesso tempo, capisce che è arrivato il momento di dare meno rilievo a temi che gli elettori percepiscono come troppo enfatizzati e meno urgenti (identità sessuale, clima e democrazia), senza per questo abbandonarli».
Negli ultimi mesi i Democratici si sono divisi in queste due anime, che sembrano antitetiche e inconciliabili, ma in realtà raccontano la stessa inquietudine. Il New York Magazine le racconta con profondità antropologica: un partito smarrito, sottoposto a «un’infinita serie di autopsie», attraversato da microguerre ideologiche e personalismi. Da un lato i populisti alla Sanders, Ocasio-Cortez e Mamdani, dall’altro i tecno-progressisti di “Abundance”, predicatori di un liberalismo pragmatico, capace di costruire invece di limitarsi a redistribuire.
Mamdani ha ereditato da Sanders il linguaggio populista, la rabbia contro i miliardari, la fede nel potere collettivo. Ma in molte cose sembra sovrapporsi alle posizioni di Klein e Thompson in “Abundance”. I suoi toni su sicurezza e polizia, ad esempio, sono più moderati rispetto agli inizi di carriera, perché ha capito che certi slogan da centro sociale occupato non possono funzionare neanche in una città storicamente progressista come New York.
«Il governo deve realizzare un programma di abbondanza che anteponga gli interessi del novantanove per cento a quelli dell’un per cento», ha detto Mamdani in campagna elettorale. È una frase che avrebbe potuto pronunciare anche Bernie Sanders, e che Ezra Klein probabilmente sottoscriverebbe. Perché, in generale, la crisi dei democratici nasce da una frustrazione nota a tutti: il distacco tra il partito e la vita reale dei cittadini.
Negli ultimi anni, la sinistra americana – e quella occidentale in senso più ampio – si è scoperta priva di un linguaggio per parlare ai lavoratori e alla classe media. Il suo vocabolario si è popolato di parole come diversity, inclusion, sustainability, ma ha dimenticato salari, affitti, salute. D’altronde, neanche lanciare l’allarme sulla morte della democrazia non ha convinto gli elettori democratici alle ultime elezioni.
La necessità di riconciliarsi con gli elettori è già un’urgenza. In tutto il mondo, e in America in particolare. La crisi interna al Partito Democratico arriva con la seconda amministrazione Trump, la presidenza più autoritaria e meno autorevole della storia statunitense. Dopo anni di guerre culturali e fallimenti strategici, i Democratici hanno bisogno di ridare un senso alla parola liberal. E forse la soluzione non è una divisione in fazioni, ma una sintesi: il progressismo non può più limitarsi a redistribuire, ma deve costruire ponti, case e fiducia nei cittadini.
Il New York Magazine chiude la sua analisi con un’immagine quasi malinconica. Una sera di settembre, piovosa e umida, Sanders e Mamdani condividono il palco del Brooklyn College. Il primo, vecchio e stanco ma ancora carismatico. Il secondo, giovane e febbrile, con «energia da maschio alfa». In platea ci sono giornalisti e influencer. Sanders dice: «Se non hai confini, non hai una nazione. Trump ha fatto un lavoro migliore del nostro. Non mi piace Trump, ma dovremmo avere un confine sicuro». È l’ammissione di una sinistra che non ha saputo rispondere alle domande degli elettori. Alla fine, scrive il magazine, «risolvere il dibattito tra abbondanza e populismo è la parte più semplice». La parte difficile è ritrovare un messaggio convincente per le persone. Perché in America, come in tutto l’Occidente, i progressisti torneranno a vincere solo quando sapranno di nuovo costruire.
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