Per il debito dei Paesi poveri serve un tribunale fallimentare internazionale

Le stime dell’ultimo Rapporto di Actionaid parlano chiaro. Centotrentotto miliardi di dollari, la somma versata nel 2024 dai Paesi più poveri del mondo in tassi d’interesse. Una cifra esorbitante, sul Pil di Paesi che finiscono col destinare più risorse al servizio del debito che al finanziamento di sanità e istruzione. Dati Unctad, l’organismo delle Nazioni Unite per il commercio e lo sviluppo, confermano che, dal 2011 a oggi, per questi paesi l’onere medio degli interessi sul gettito fiscale è quasi raddoppiato. Per cinquantaquattro il tentativo di risanare i debiti contratti pesa più del dieci per cento delle entrate fiscali.
Finisce così che circa il sessantacinque per cento della popolazione mondiale vive in Paesi che trasferiscono meno risorse alla cura della salute e all’istruzione pubblica, che al debito pubblico. Sono dolorose da ascoltare le voci di insegnanti e medici, raccolte nel dossier realizzato da ActionAid “Il costo umano dei tagli al settore pubblico in Africa”. Tra riduzione degli stipendi, carenze di materiale scolastico e presidi sanitari: «Nell’ultimo mese – ha riferito un’operatrice sanitaria in Kenya – ho visto quattro donne partorire in casa a causa del costo insostenibile del ticket ospedaliero. Le persone della comunità sono costrette a vaccinarsi negli ospedali privati, poiché i medicinali non sono disponibili negli ospedali pubblici».
A rendere così difficile la ristrutturazione del debito intervengono una serie di fattori e fluttuazioni internazionali: «L’aumento dei tassi globali, la frammentazione della platea dei creditori, la vulnerabilità a shock climatici e sanitari e il costo del capitale persistentemente elevato», si legge in una nota del rapporto curato dal Centro studi di politica internazionale, in merito alle iniziative del G20 sul tema.
Sul fronte dei creditori, soggetti privati, come banche o grandi fondi d’investimento, hanno scalzato lo storico ruolo delle istituzioni multilaterali, come il Fondo monetario internazionale (Fmi) e la Banca Mondiale, seppur l’azione stabilizzatrice di queste rimanga un nodo cruciale. Come descrive un editoriale del Financial Times, queste forniscono valuta forte che i paesi poveri utilizzano per finanziare i rimborsi al settore privato. Un tappar di buchi, un sollievo temporaneo di liquidità, che non affronta tuttavia l’impatto della crisi del debito sul blocco dello sviluppo socio-economico.
Il vero problema dell’avere una maggioranza di creditori privati è che questi sono molto più difficili da regolare, esigono tassi di interesse più alti e legano il debito alla speculazione finanziaria. «I privati prestano soldi a breve termine, poi se questi paesi non sono in grado di restituire la rata del debito contratto, si vedono aumentare il tasso di interesse dal cinque/sei per cento, all’otto, dieci e così via», ha detto a Linkiesta Stefano Zamagni, ordinario di Economia politica presso l’Università di Bologna, nonché ex-presidente dell’Agenzia del terzo settore e della Pontificia accademia di scienze sociali.
«Non solo, i privati che hanno in mano il credito, dopo un po’ di tempo che i paesi non ripagano perché hanno dichiarato default, si rivolgono alle istituzioni internazionali per farsi rimborsare», continua il professore.
Una struttura “usurocratica” dell’economia globale, è il termine coniato da Papa Francesco due anni fa, per indicare l’usura istituzionalizzata e legalizzata, seppur sotto traccia. Insita nell’assetto delle organizzazioni economiche internazionali, create nel 1944, dopo la guerra mondiale, per favorire lo sviluppo dei paesi occidentali. Oggi una clava per provocare il debito tramite modalità neocolonialiste.
Tanti i tentativi messi in atto per la ristrutturazione dal 1985. Fra tutti, l’Iniziativa per i paesi poveri fortemente indebitati (Hipc), integrata nel 2005 con l’Iniziativa multilaterale per la riduzione del debito (Mdri), consente ai Paesi che ne soddisfano le condizionalità di ricevere una riduzione del cento per cento dei debiti ammissibili.
Il traguardo avrà vita breve poiché fallisce nel prevenire una nuova spirale di accumulazione del debito. «Occorre cambiare le regole del gioco, della finanza internazionale», incalza Zamagni, oltre che vigilare su fenomeni corruttivi e di accaparramento dei fondi ricevuti, da governanti che hanno arricchito sé stessi, invece che indirizzarli verso lo sviluppo del paese, come descritto anche da Papa Giovanni Paolo secondo.
Oggi, il piano più ambizioso, presentato alla seduta Onu di settembre è il Jubilee Report. Presieduto dal premio Nobel Joseph Stiglitz, espone una nuova versione dell’Hpci, che integri misure di cancellazione del debito e riforme dell’architettura economica mondiale. Il principio cardine vuole che un Paese, già in crisi per il suo debito, non debba continuare a pagare a un creditore più soldi in interessi pregressi rispetto a quelli che riceve.
È necessaria la creazione di un tribunale fallimentare internazionale, per giudicare in modo equo la risoluzione del debito, oltre a una riforma delle agenzie di rating, enti privati con un ruolo preponderante nel definire l’affidabilità di un paese e di riflesso i tassi di interesse che pagherà. Al contrario, serve un’agenzia globale pubblica, che operi con criteri trasparenti. A seguire, un superamento del meccanismo di veto in sede Onu, al fine di consentire ai volenterosi di aggregarsi, nonché un deciso contrasto al fenomeno del land grabbing o accaparramento delle terre, che affligge soprattutto l’Africa sub-sahariana e l’America Latina.
A chi taccia di idealismo il progetto, il professor Zamagni risponde: «Bisogna capire che il male vince nel breve termine, ma nel lungo vince solo il bene comune. Se si va avanti ancora alcuni anni così, se i cinquantasei paesi vicini al default arrivano a dichiararlo, sai quello che succede? Una crisi per noi occidentali di proporzioni inenarrabili, una bolla speculativa, quindi i più intelligenti tra i politici cominciano a capirlo. L’occidente sta un po’ la volta cambiando. Bisogna accelerare il processo e spiegarlo alla gente».
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