Perché una parte dell’oro italiano si trova a New York (e non a Fort Knox)

Novembre 12, 2025 - 14:30
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Perché una parte dell’oro italiano si trova a New York (e non a Fort Knox)

L’ex presidente del Consiglio Romano Prodi sostiene che l’Italia dovrebbe ritirare una parte del suo oro che si trova negli Stati Uniti, spiegando che l’instabilità politica americana rende opportuno valutare un rientro parziale delle riserve, come ha fatto la Francia in diverse fasi della sua storia recente.  La domanda non è peregrina anche perché siamo il terzo paese al mondo per riserve auree, dopo Germania e Stati Uniti.

L’Italia detiene 2.452 tonnellate di oro e circa la metà (44,86 per cento) si trova nei caveau della Banca d’Italia a Roma. Non si tratta del tesoro del Regno delle Due Sicilie sottratto durante l’unificazione del 1861, come ripetono alcuni nostalgici neoborbonici. Gli archivi della Banca d’Italia mostrano che il Regno delle Due Sicilie possedeva quasi solo argento. Le prime riserve auree italiane nascono nel 1893 e il contributo meridionale, quantitativamente modesto, arriva solo nel 1926 con il trasferimento delle riserve metalliche del Banco di Napoli e del Banco di Sicilia.

La parte restante del nostro tesoro nazionale è divisa la Bank of England (5,76 per cento), la Banca Nazionale Svizzera (6,09 per cento) e gli Stati Uniti (43,29 per cento); ma non a Fort Knox, contrariamente a quanto scritto da alcuni media italiani. Quel deposito è di proprietà del Tesoro statunitense, non ospita oro di banche centrali estere e non ha alcuna relazione con l’Italia. Un terzo dell’oro nostrano si trova a New York, in un caveau di Manhattan: un edificio antiatomico scavato venticinque metri sotto terra e protetto da un cilindro d’acciaio da novanta tonnellate. È un deposito che non appartiene tecnicamente alla Federal Reserve: la banca americana agisce come custode, non come proprietaria, e ogni barra resta in compartimenti separati, non fungibili e sotto il controllo congiunto di personale di sicurezza e revisori interni. 

Ma perché proprio a New York? A partire dal secondo dopoguerra l’Italia divenne un Paese esportatore, accumulando grandi quantità di dollari. Il governo italiano decise di convertirne una parte in oro, seguendo la prassi delle maggiori economie occidentali. Tra gli anni cinquanta e sessanta la Banca d’Italia acquistò la maggior parte del metallo oggi in suo possesso. È in questa fase che il caveau della Federal Reserve di New York divenne, insieme a Londra, la destinazione naturale del metallo europeo: gli Stati Uniti erano la potenza egemone del sistema di Bretton Woods, il dollaro era convertibile in oro, le piazze anglosassoni garantivano liquidità immediata, sicurezza e una cornice politica stabile.

A pesare nella scelta italiana fu anche un piccolo trauma nella nostra storia nazionale, nel 1943 i nazisti costrinsero la Banca d’Italia a trasferire l’oro da Roma a Milano e poi verso Fortezza, in Alto Adige. Una parte finì a Berlino, il resto in Svizzera attraverso convogli organizzati tra Como, Chiasso e Berna per soddisfare le richieste della Banca dei Regolamenti Internazionali e della Banca Nazionale Svizzera. La ricostruzione postbellica del patrimonio aureo italiano fu complessa e solo nel 1958 tre quarti del metallo sottratto dai tedeschi furono recuperati. 

Anche per questo motivo da decenni una gran parte dell’oro nazionale si trova oltreoceano. Poi è arrivato Donald Trump che in nove mesi alla Casa Bianca ha picconato la reputazione degli Stati Uniti, rendendo la proposta di Romano Prodi meno bizzarra di quello che sembrerebbe. Oggi, chiedersi se riportare a casa una parte delle riserve è legittimo per due motivi. Primo, la possibilità teorica di un’interruzione dell’accesso fisico al metallo non può essere esclusa, soprattutto durante la presidenza Trump. Il secondo riguarda l’autonomia strategica: possedere oro sul proprio territorio significa eliminare ogni rischio derivante da decisioni di governi stranieri, anche solo in caso di crisi finanziarie o sanzioni incrociate. Tradotto: un lingotto custodito a Roma è sottratto in modo assoluto a qualunque giurisdizione che non sia quella italiana, mentre un lingotto depositato all’estero resta esposto a un margine di rischio politico, anche se minimo.

Ma ci sono anche ragioni solide per cui un rimpatrio totale potrebbe essere controproducente. La prima è tecnica. New York resta uno dei mercati più efficienti e profondi per l’oro monetario: qui si concentrano gli operatori istituzionali, le infrastrutture di regolamento e le controparti ufficiali. Tenere una parte delle riserve direttamente nei caveau della Federal Reserve significa poterle impiegare senza alcun passaggio logistico, trasformandole in valuta forte o mettendole a garanzia di un’operazione internazionale nell’arco di poche ore, semplicemente trasferendo la proprietà dei lingotti da un comparto all’altro dello stesso deposito.

Facciamo un esempio concreto: se il governo italiano avesse bisogno di ottenere rapidamente liquidità in dollari per sostenere il sistema bancario in una fase di stress, potrebbe utilizzare una quota dei lingotti custoditi a Manhattan come collaterale in un prestito con una banca centrale partner o con un organismo internazionale, senza dover movimentare fisicamente neppure un chilo di metallo. L’operazione avverrebbe con un semplice ordine di trasferimento intravault, immediatamente eseguibile e riconosciuto a livello globale

La seconda ragione riguarda i costi. Trasferire fisicamente tonnellate di oro comporta spese ingenti, rischi logistici e procedure di sicurezza complesse. La terza è strategica. Conservare parte dello stock in più localizzazioni è una forma di diversificazione: nessun Paese affida tutto il proprio metallo a un solo deposito, perché ogni crisi è diversa e ogni area geografica può offrire un vantaggio diverso nei momenti critici. L’Italia non ha lasciato l’oro negli Stati Uniti per deferenza politica, ma per convenienza operativa. E oggi non dovrebbe riportarlo a casa per riflesso identitario, ma solo se i benefici superano i costi.

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