Anche un piatto egiziano patrimonio Unesco come la cucina italiana

È una coincidenza che dice molto sul nostro tempo: mentre l’Italia festeggia l’ingresso della cucina italiana tra i patrimoni immateriali dell’Unesco, anche l’Egitto ottiene un riconoscimento gastronomico, questa volta per una singola preparazione, il koshary – piatto nazionale che riempie strade, case e memorie affettive del Paese. Due narrazioni lontane, che in queste ore camminano in parallelo: la nostra, spesso appesantita da retorica identitaria; quella egiziana, più sobria e centrata sul valore culturale del cibo nella vita delle persone. Il koshari, spesso chiamato anche koshary o kushari, è un piatto base della cucina egiziana e, sempre più spesso, della cucina vegana in generale, in quanto la ricetta originale è priva di carne e contiene ingredienti altamente energetici, soprattutto due legumi: i ceci e le lenticchie. È un piatto di riso e pasta corta condita con una salsa speziata a base di ceci e lenticchie, e uno strato di aglio egiziano, aceto e salsa di pomodoro completato con un cipolla fritta. Nato a metà del XIX secolo, il koshary è vegano e può rientrare nella dieta priva di carni dei Copti durante la Quaresima.
In Egitto la notizia è stata accolta con un orgoglio composto. Il Daily News Egypt, tra i primi quotidiani a raccontare la proclamazione, sottolinea come si tratti del primo piatto della tradizione egiziana a essere iscritto nella lista e come il riconoscimento riguardi non la ricetta in sé, ma le pratiche sociali e culturali che ne accompagnano la preparazione: un gesto trasmesso di generazione in generazione, che unisce ingredienti umili – riso, lenticchie, pasta, ceci, salsa speziata, cipolle fritte – in una pietanza accessibile a tutti. Il koshary è infatti il cibo della quotidianità, quello che si mangia in strada, nei mercati, a casa, senza distinzione di ceto.
Il Ministro della Cultura egiziano, Ahmed Fouad Hanno, parla di «un riconoscimento che celebra la cultura della vita quotidiana», sottolineando come il dossier abbia messo al centro il valore identitario del piatto nella società egiziana. Altri giornali del Cairo insistono su un punto interessante: il koshary, oggi simbolo nazionale, è il risultato di secoli di incontri: riso dall’Asia, legumi dal Medio Oriente, pomodoro dalle Americhe. Una storia di contaminazioni che l’Egitto rivendica come parte integrante della propria identità.
È un aspetto che risuona con quanto l’Unesco ha riconosciuto anche per l’Italia: non un patrimonio rigido o “puro”, ma una cultura che vive perché mescola, cambia, accoglie. Solo che in Egitto questo messaggio è stato raccolto senza forzature ideologiche. La stampa locale non parla di lotta all’“arabic sounding”, non evoca tradizioni da difendere con le unghie: racconta un piatto che rappresenta la vita che scorre, nella sua semplicità e complessità.
Il koshary, spiegano i media egiziani, è patrimonio non perché “tipico”, ma perché connette le persone, perché appartiene a tutti e perché continua a trasformarsi restando fedele alla sua anima popolare. È talmente diffuso che si può mangiare anche in Italia, e a Milano ha addirittura un ristorante dedicato: si chiama appunto Koshari 101.
Una lezione interessante per noi, che in queste ore rischiamo di imprigionare la nostra cucina dentro narrazioni identitarie che nulla hanno a che vedere con lo spirito dell’Unesco. Due riconoscimenti diversi, uno per un intero ecosistema culturale, l’altro per un piatto specifico. Ma entrambi, alla fine, raccontano la stessa cosa: il cibo diventa patrimonio quando smette di essere bandiera e torna a essere ciò che è sempre stato: una storia comune, fatta di mani, di gesti, di quotidianità condivise.
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