Cesare Battisti e la cucina che deve tornare comprensibile

Novembre 10, 2025 - 04:00
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Cesare Battisti e la cucina che deve tornare comprensibile

«Io non sono un influencer, sono un comunicatore». Cesare Battisti lo dice con quella pacatezza diretta che lo contraddistingue, dal palco del Festival di Linkiesta Gastronomika. L’idea di “ricetta per il successo”, sui social come nella vita, non lo convince: «Non ci sono ricette. Paga solo la sincerità». Nei suoi video – quelli che macinano visualizzazioni tra pasta fresca, polpette e risotti – non c’è narcisismo, né estetica dell’effetto speciale. Solo i piatti che davvero si cucinano nei suoi locali: Ratanà, Remulass, Silvano e il pastificio. «Comunico quello che facciamo tutti i giorni. Niente resine, fumi o esercizi di stile: la cucina dev’essere democratica, comprensibile alla maggioranza».

Battisti rifiuta l’etichetta di “chef performer”. Per lui la cucina resta un atto di servizio, un linguaggio che unisce, non un palcoscenico da esibire. «Negli ultimi anni abbiamo vissuto una schizofrenia mediatica: cuochi superstar, format tv, social invasi da ricette mirabolanti. Ma la verità è un’altra: la cucina vera è fatta di cose semplici, fatte bene e con piacere».

Dietro i video virali, c’è però una responsabilità molto concreta: «Io ho settanta stipendi da pagare ogni mese. Il mio compito è anche comunicare, perché oggi se non lo fai tu, non lo fa nessuno. I critici vengono meno, i giornalisti escono poco: oggi il ristoratore deve imparare a promuoversi da sé».

Osterie inclusive e fine dining in crisi d’identità
Battisti non demonizza l’alta cucina, ma la ridimensiona. «I fine dining servono, devono esistere come icone. Ma oggi le persone faticano ad andarci non perché non li capiscano, ma perché sono cambiate: vogliono riconoscersi in qualcosa di semplice, di vero».

È una questione sociale, prima ancora che gastronomica. «Viviamo in tempi incerti: almeno nel cibo cerchiamo certezze. Oggi funziona ciò che è inclusivo, accessibile, comprensibile. La gente vuole parlare con lo chef, sentirsi accolta, sapere cosa mangia». E aggiunge, con una punta di ironia: «Tra cinque anni torneranno le tovaglie di fiandra e il cameriere col grembiulone. Ma ora le persone vogliono essere abbracciate».

Foto di Gaia Menchicchi

Per Battisti la cucina è fatta di intimità e identità, non di repliche globali. «A Milano, prima del Covid, in tutti i ristoranti mangiavi lo stesso carpaccio di capesante con la stessa schiuma di mais: chiudevi gli occhi e potevi essere a Berlino. Ma la cucina non è performance, è connessione. Quando cucini, maneggi materia viva: chi la mangia deve capire chi sei».

Milano capitale discreta, e l’idea rivoluzionaria di aprire tutto il giorno
Milano resta, per Battisti, una città-mondo. «È la più agricola d’Italia, ha il Parco Sud, è capitale del food design e del turismo». Ma anche una città fashion victim, dove spesso l’apparenza ha preso il sopravvento sulla sostanza. Proprio per questo, annuncia dal palco una scelta che è anche una sfida: da fine gennaio il Ratanà sarà aperto tutto il giorno.

Una decisione che nasce da un’osservazione pratica – e da un atto politico. «A Milano arrivano milioni di turisti, ma nel pomeriggio non c’è nulla di aperto. In piazza Duomo, quattro ristoranti. Perché? Perché dovremmo tenere due brigate, una a pranzo e una a cena, invece di lavorare con continuità?». L’apertura all day risponde anche a una necessità più urgente: quella di rendere il lavoro sostenibile.

«Il personale ormai rifiuta il turno spezzato. E hanno ragione: molti vivono lontano, spendono due ore al giorno solo per spostarsi. Non possiamo più chiedere alle persone di uscire alle otto del mattino e tornare a casa a mezzanotte. Se non troviamo personale, dobbiamo cambiare noi». Il nuovo modello prevede turni di otto ore e una squadra che si alterna su fasce diverse: una piccola rivoluzione organizzativa, che potrebbe diventare contagiosa.

Scuola, formazione e il grande vuoto generazionale
C’è un punto che lo chef definisce “drammatico”: la formazione. Secondo Renaia, la rete nazionale degli istituti alberghieri, il 94 per cento dei diplomati non entra in cucina. «Un dato che dovrebbe far tremare i polsi. I professori insegnano ancora il vol-au-vent e la finanziera, ma la cucina è cambiata. Servono corsi di aggiornamento, un’ora di educazione alimentare a scuola, e un legame vero tra istituti e ristoranti».
Con gli Ambasciatori del Gusto, Battisti ha provato a siglare un protocollo con Renaia, «ma si resta sempre bloccati a livello ministeriale, come in posta: tutti sanno che è giusto, ma nessuno firma».

Eppure lui continuerebbe a consigliare questo mestiere ai giovani. «Assolutamente sì. Ma non con il mito del sacrificio cieco. Non si cresce più facendo diciotto ore al giorno. Si cresce se si ascolta: i clienti, i colleghi, i ragazzi. Questo lavoro è una scuola di ascolto».

Alla domanda «e se volessero andare all’estero?», risponde senza esitazione: «Spagna. Lì lo Stato investe nel settore, il welfare funziona, la ristorazione è rispettata».

Foto di Gaia Menchicchi

Tecniche che viaggiano, identità che restano
Battisti si definisce “un cuoco di territorio contaminato”. L’ottanta per cento della sua cucina è milanese-lombarda, il resto è ricerca di tecniche e idee dal mondo. «Ho cominciato a fare dei ramen all’italiana con tagliolini in brodo di cappone o acqua di pomodoro fredda, dei pad thai con arachidi molisane. Se viaggiassero più le tecniche che i prodotti, staremmo tutti meglio».

Le sue trasferte lo hanno portato in Finlandia, dove ha “traslocato” il Ratanà per una settimana («esperienza bellissima ma logisticamente folle») e poi a New York, dove ha trovato «prezzi quadruplicati dal Covid, vino a 24 dollari al calice». E conclude con una nota di realismo: «Guardiamo l’estero, ma non copiamolo: importiamo ciò che funziona, non i costi».

«Anche cucinare è politica»
Alla fine, quando Anna Prandoni gli chiede se si sente un influencer o un attivista, Battisti sorride: «Sono partigiano, nel senso letterale: parteggio per qualcosa». Crede che la cucina abbia un’anima politica, che ogni piatto sia una dichiarazione di responsabilità. «È troppo facile andare dove tira il vento. Bisogna avere il coraggio di dire: ho sbagliato. Ma bisogna credere in qualcosa. Quando smetti di crederci, è la fine».

E alla stampa gastronomica lancia un invito: «Voi avete un peso. Usatelo per indirizzare le persone verso la luce della gastronomia».

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