Generazione latte d’avena

C’è un momento preciso in cui un alimento smette di essere solo cibo e diventa linguaggio. Il latte d’avena è arrivato lì: da prodotto funzionale, nato negli anni Novanta nei laboratori dell’Università di Lund in Svezia, a simbolo identitario per una comunità globale che si riconosce in scelte alimentari, ambientali e culturali. Non è successo per caso. È stata la mano – e l’intuizione – di un’azienda, Oatly, a trasformare una bevanda vegetale in un manifesto. Oggi dire “latte d’avena” non significa più semplicemente scegliere un cappuccino senza lattosio. Significa appartenere a un immaginario preciso, farsi riconoscere da un segno sottile che parla di chi siamo e di come vogliamo raccontarci. È la dimostrazione che, nel cibo come nella comunicazione, non basta più essere buoni o salutari: bisogna essere significativi.
Ma tutto è partito da uno slogan, “It’s like milk, but made for humans”, che ha fatto il giro del mondo. Diretto, minimale, e soprattutto provocatorio. Ha scatenato reazioni furibonde dalle lobby del latte vaccino, trascinato il marchio in tribunale in più di un Paese e moltiplicato l’eco mediatica. La stessa cosa è accaduta con “Post Milk Generation”, l’etichetta con cui Oatly ha ribattezzato i suoi consumatori: non semplici clienti, ma membri di una nuova era. Non a caso, nel 2024 la Corte d’appello di Londra ha respinto la richiesta di registrazione del marchio, come racconta Great Italian Food Trade. È lì che nasce, anche nel linguaggio quotidiano, l’idea della “generazione latte d’avena”.
Ma Oatly non si è fermata agli slogan. Ha scelto canali di diffusione intelligenti: non i supermercati, almeno all’inizio, ma i coffee shop urbani. Ha convinto i baristi indipendenti, gli hub culturali delle città, i luoghi in cui le mode nascono e si consolidano. Così il latte d’avena è entrato nelle tazze dei cappuccini più instagrammati del mondo, e di lì sui social.
Il resto lo hanno fatto i meme. Su TikTok e Tumblr, bere latte d’avena è diventato una dichiarazione: queer, progressista, urbana, attenta all’ambiente. Uno stereotipo che gioca con l’ironia e che i brand non hanno mai smentito. Anzi, hanno cavalcato con complicità: il CEO di Oatly che suona la tastiera in un campo d’avena cantando “Wow, no cow” non è uno spot, è un meme anticipato. E funziona.
Dietro la leggerezza di queste campagne c’è un mercato in piena espansione. Le cifre parlano chiaro: secondo Fortune Business Insights, nel 2023 il settore valeva circa 3 miliardi di dollari, con previsioni che lo portano oltre i 10 miliardi entro il 2032. Un ritmo che altre ricerche, come Mordor Intelligence, confermano: crescita a doppia cifra, tra il 10 e il 15 per cento annuo, trainata da Europa e Asia-Pacifico, ma con un’adozione sempre più forte anche negli Stati Uniti.
Proprio negli Usa le vendite sono aumentate di oltre il 50 per cento nel 2022, raggiungendo circa 527 milioni di dollari, come riporta Perfect Daily Grind. E nel Regno Unito, tra 2018 e 2019, la crescita ha superato il 700 per cento, secondo The Times. Dati che spiegano perché Starbucks e Dunkin’ non abbiano esitato a inserirlo come opzione di default nei loro menu, consacrandone la normalizzazione.
Oatly, però, resta un caso a sé. I concorrenti – da Nestlé con Wunda a Danone con Alpro – puntano sul fronte nutrizionale e sulla sostenibilità, giocano la partita con gli argomenti classici del plant-based. Ma nessuno ha saputo fare quello che Oatly ha fatto: trasformare un cartone di bevanda vegetale in un racconto. Le confezioni stesse parlano, con testi lunghi e ironici che sembrano note scritte a mano per un lettore curioso. Non c’è neutralità, non c’è rassicurazione: c’è identità.
È questa la vera rivoluzione del latte d’avena. Non tanto i dati nutrizionali, che anzi hanno attirato qualche critica (più zuccheri e meno proteine rispetto al latte vaccino, come spiegato anche su NSS G Club), né solo l’impatto ambientale ridotto, pur reale. La forza è nel linguaggio: un prodotto che diventa manifesto, una bevanda che si fa generazione.
E così, mentre i numeri continuano a crescere e le previsioni di mercato si moltiplicano, resta la sensazione che il latte d’avena sia già riuscito in quello che molti prodotti inseguono invano: smettere di essere alimento e diventare linguaggio. Una lingua ironica e inclusiva, che un cartone di Oatly sa scrivere meglio di tante campagne pubblicitarie.
L'articolo Generazione latte d’avena proviene da Linkiesta.it.
Qual è la tua reazione?






