Il giorno in cui l’America decise di prendere sul serio l’ambiente

La crescente sensibilità per la questione ambientale sollecitò, a cavallo fra anni Sessanta e Settanta, l’emergere di nuove prospettive culturali che sfidavano il prevalente paradigma della modernità, tanto nella sua versione liberaldemocratica (egemone in Occidente) quanto nella sua variante marxista. Si trattò di una tendenza internazionale, che ebbe come epicentro gli Stati Uniti. Qui già all’inizio degli anni Sessanta la biologa Rachel Carson aveva posto in evidenza i danni che un prodotto fino ad allora ritenuto essenzialmente benefico per le comunità umane, il Ddt (protagonista, fra le altre cose, dell’eradicazione della malaria in vaste parti del mondo occidentale), poteva arrecare agli ecosistemi, suscitando un dibattito di ampia portata.
Contestualmente, le esplorazioni spaziali avevano posto l’umanità di fronte a un dato fino ad allora poco meditato: il fatto che la terra è un sistema chiuso, le cui risorse sono finite e i cui rifiuti non possono essere spazzati via nell’universo. Su questa base l’economista Kenneth E. Boulding aveva coniato il concetto di spaceship earth, contrapposto a quello di cowboy economy – l’approccio dissipativo che fino ad allora aveva caratterizzato il rapporto dell’umanità con l’ambiente. Nel 1968, infine, il biologo Paul Ehrlich, in un testo – Population bomb – divenuto subito un bestseller, aveva riproposto l’allarme su una possibile rapida rarefazione delle risorse provocata dall’esponenziale incremento della popolazione mondiale in atto sin dal dopoguerra.
Queste suggestioni trovarono un potentissimo vettore nei movimenti ambientalisti che in quel frangente stavano diffondendosi nelle società occidentali. Un punto di svolta nella visibilità pubblica di quelle tematiche lo si ebbe senz’altro nel 1970. Il 22 gennaio di quell’anno, durante il suo discorso sullo stato dell’Unione, il presidente usa Richard Nixon raccolse la sfida ecologica annunciando un vasto piano di interventi; di lì a poco avrebbe visto la luce una nuova agenzia federale, la Epa (Environmental Protection Agency), posta sotto il controllo diretto del capo dello Stato.
Il 22 aprile milioni di americani scesero in piazza, su sollecitazione delle sigle ambientaliste (e col prezioso sostegno del sindacato degli operai del settore auto), per l’Earth Day. Nel vecchio continente le mobilitazioni furono meno intense, ma diverse iniziative vennero promosse nell’ambito dell’anno europeo per la protezione della natura proclamato dal Consiglio d’Europa. Nel corso del 1970 infine, con la nomina del diplomatico canadese Maurice Strong a capo della segreteria incaricata di preparare l’evento, si crearono le condizioni organizzative e politiche che avrebbero permesso lo svolgimento, due anni dopo a Stoccolma, della prima Conferenza onu sull’ambiente – un appuntamento deliberato dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite già nel dicembre 1968.
Per l’Italia il 1970 fu segnato soprattutto dalla “lunga estate calda” dei “pretori d’assalto”. A metà luglio, dopo aver appreso dai giornali della sistematica contaminazione cui erano esposte le acque marine, a Genova Adriano Sansa ordinò il divieto di balneazione su un ampio tratto di costa. A stretto giro anche la pretura di Roma, su iniziativa di Gianfranco Amendola, avviò una serie di indagini sul Tevere e sul litorale a ridosso della capitale, mentre a Ravenna Matteo Agnoli mise insieme elementi che comprovavano le responsabilità di diversi impianti produttivi (zuccherifici, distillerie, allevamenti ecc.) nell’inquinamento della Riviera romagnola. A Milano invece l’attenzione di Vincenzo Castiglione si rivolse soprattutto allo stato di degrado che caratterizzava ormai da tempo le acque interne dell’area metropolitana; nella stessa direzione si mosse di lì a poco il collega Enzo Tardino a Legnano.
Quasi tutte queste iniziative scoperchiarono situazioni ben note all’opinione pubblica, a una parte della comunità tecnico-scientifica e alle stesse istituzioni politiche. L’intervento dei giudici, però, introdusse un elemento nuovo e dirompente: l’idea che quello stato di fatto potesse essere considerato non soltanto dannoso, ma anche illegale, e soprattutto perseguibile anche solo sulla base delle norme vigenti – magari attraverso opportune reinterpretazioni. Ne derivò un’enorme eco mediatica, che contribuì non poco a stimolare l’emulazione fra magistrati di diverse parti d’Italia e a sensibilizzare vasti strati di cittadinanza. La situazione fu resa ancora più drammatica dal fatto che furono chiamate a rispondere di condotte illecite numerose imprese di vario tipo e dimensione, mentre ad amministratori pubblici di diverso rango (prefetti, sindaci, medici provinciali) fu rivolta l’accusa di comportamenti omissivi.
Mosse così i primi passi quella “supplenza” dei giudici nei riguardi delle insufficienze degli organi politico-amministrativi che avrebbe caratterizzato a lungo l’azione di contrasto agli inquinamenti nel nostro paese. Essa si saldò con il crescente risalto che i media diedero a quegli avvenimenti, generando un potente strumento di pressione sull’opinione pubblica e sugli stessi decisori politici. Anche a seguito di queste vicende il dibattito pubblico italiano nel 1970 fece registrare un’attenzione inedita per i temi posti dal movimento ambientalista (fra l’altro da allora prese a diffondersi l’espressione “ecologia” utilizzata in senso non disciplinare). Fra gli aspetti più interessanti va segnalato l’avvio anche nel nostro paese di una riflessione politico-culturale specifica sulla questione ambientale, che pose le basi di quella che in seguito sarebbe stata definita “ecologia politica”.
Ad animare il dibattito furono soprattutto esponenti già affermati della comunità scientifica, politicamente orientati a sinistra, sensibili in particolare alle istanze di rifiuto della neutralità della scienza propugnate da alcuni settori del movimento studentesco. Fra questi troviamo figure che abbiamo già incontrato, come Virginio Bettini, Roberto Marchetti, Giorgio Nebbia, che all’inizio del 1970 furono fra i fondatori della rivista “Ecologia”. Nel numero inaugurale lo stesso Bettini delineò i tratti distintivi dell’iniziativa: considerare «il problema ecologico come comprensivo di singoli interessi e l’ecologia come esame interdisciplinare dei rapporti fra l’uomo, come singolo e come società, e la sua unica casa e rifugio nello spazio, il pianeta Terra»; tutto ciò allo scopo di fornire «l’indicazione più ferma che le risorse naturali del pianeta Terra non sono state date all’uomo per essere sfruttate al fine di garantire benessere ad una parte limitata degli odierni abitanti, ma per assicurare un mondo umano a tutti i terrestri attualmente viventi e alle generazioni future».
In seguito “Ecologia” accolse, fra gli altri, Maccacaro, i biologi Giorgio Macuzzi e Menico Torchio, lo zoologo Vittorio Parisi, Renato Bazzoni di Italia Nostra, Fulco Pratesi del Wwf e il giornalista Alfredo Todisco; a partire dal 1971 la rivista ospitò inoltre l’inserto “Denunciamo” curato dai giovani del Movimento ecologico. Nell’aprile del 1970, in un contesto assai meno connotato politicamente, esponenti di diverse discipline scientifiche furono chiamati a misurarsi con la sfida ecologica nel convegno L’uomo e l’ambiente, una delle poche iniziative organizzate in Italia per celebrare l’anno europeo per la conservazione della natura. Promosso dalla milanese fast, da tempo impegnata nell’indagine sugli inquinamenti, l’evento si avvalse della curatela scientifica di Giorgio Nebbia. Come si ricorderà, in veste di docente di merceologia dell’Università di Bari, negli anni precedenti Nebbia si era dedicato in particolare agli esperimenti di desalinizzazione delle acque marine (cfr. par. 1.3.3).
Un interesse più diretto per la mobilitazione ambientalista era maturato in lui alla fine degli anni Sessanta, portandolo a corrispondere con le figure più rappresentative del movimento ecologista statunitense e a prendere parte ai diversi sodalizi allora attivi in Italia (Italia Nostra, wwf, Pro Natura). L’intervento introduttivo che egli tenne al convegno della fast fu quanto mai significativo per le prospettive che apriva. Nebbia tratteggiò in primo luogo un abbozzo di storia ambientale ante litteram, che combinava storia della tecnica e storia delle idee. Dal “disincanto della natura” introdotto dalle religioni monoteiste all’utilitarismo affermatosi nella Gran Bretagna della Rivoluzione industriale, le società umane avevano immaginato il loro rapporto con l’ambiente nei termini della conquista di spazi infiniti e dello sfruttamento di risorse illimitate – l’economia del cowboy di cui parlava Boulding. Lo sviluppo delle tecniche era stato orientato alla massimizzazione di tali processi, mentre i suoi impatti ambientali erano stati sistematicamente ignorati.
L’umanità aveva così posto le condizioni di una crisi che minacciava la sua stessa sopravvivenza. A essa si guardava con diversi atteggiamenti: alle posizioni che – con sfumature che variavano dall’adesione entusiastica alla revisione critica – restavano ancorate al paradigma dominante si contrapponeva da qualche tempo una contestazione ecologica – fu in questa sede che l’espressione venne utilizzata per la prima volta dallo scienziato emiliano – che puntava a ridefinire i presupposti culturali dell’attività antropica. Nebbia faceva riferimento in particolare ai movimenti che avevano preso le mosse dagli Stati Uniti, e ne elencava alcune istanze: la limitazione della crescita della popolazione, la diminuzione delle auto private, la lotta agli inquinamenti dell’aria e dell’acqua, la contrazione del consumo di combustibili fossili, la cautela nella realizzazione di centrali idroelettriche, la messa al bando della caccia, l’opposizione all’uso ricreativo degli spazi naturali ancora incontaminati, all’uso degli antiparassitari, all’energia nucleare.
In sostanza, la contestazione ecologica prospettava una revisione profonda dei modelli di sviluppo prevalenti, di cui Nebbia non nascondeva gli aspetti problematici – su tutti il rischio di interferire con la legittima aspirazione al benessere dei paesi postcoloniali e la necessità di una forte responsabilizzazione individuale, in assenza della quale l’urgenza di trovare soluzioni per nodi sempre più intricati avrebbe fatto prevalere soluzioni autoritarie. Gli accenti anticonsumistici e l’attenzione posta sul difficile equilibrio fra libertà e responsabilità legavano profondamente la riflessione di Nebbia ai fermenti in atto nel mondo cattolico. Al contempo, lo studioso emiliano fu tra i più attivi nel tentare di stabilire connessioni fra aree politico-culturali diverse intorno ai temi cari all’emergente ambientalismo.
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