Il Made in Italy tra neo protezionismo USA e dumping cinese: l’analisi di KPMG e gli scenari per la manifattura italiana

Ottobre 30, 2025 - 09:30
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Il Made in Italy tra neo protezionismo USA e dumping cinese: l’analisi di KPMG e gli scenari per la manifattura italiana

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Il Made in Italy tra neo protezionismo USA e dumping cinese: l’analisi di KPMG e gli scenari per la manifattura italiana



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Tra deficit americani e surplus cinesi, il Made in Italy rischia di restare schiacciato nella competizione tra le due potenze globali. Dall’analisi di Roberto Giovannini (KPMG) emergono gli scenari che l’industria italiana deve affrontare per difendere la propria posizione economica e culturale nel mondo

Pubblicato il 29 ott 2025



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L’erosione della centralità europea nel commercio internazionale è un dato ormai strutturale. Roberto Giovannini, Partner e Head of Consumer Industrial Markets di KPMG, nel suo intervento al Made in Italy Summit 2025 de IlSole24Ore, ha evidenziato come “l’Europa abbia perso quindici punti di quota di mercato negli ultimi decenni”, mentre “l’Italia ha ridotto la propria incidenza sul PIL globale di due terzi”.

Una tendenza che, se non invertita, potrebbe portare il Paese a rappresentare appena lo 0,7% del prodotto mondiale nei prossimi vent’anni.

Secondo Giovannini questa perdita di peso non è episodica ma frutto di una trasformazione profonda: “Due grandi potenze, Stati Uniti e Cina, possiedono oggi la metà della ricchezza mondiale”. Intorno a loro si muovono economie satellite come quelle dei Paesi BRICS, che detengono il 46% della popolazione e il 40% del reddito globale. L’Europa, al contrario, si trova a gestire un ridimensionamento che non riguarda solo la produzione, ma la capacità di incidere sulle regole del commercio internazionale.

I due modelli di potere: deficit e surplus

Il confronto tra Washington e Pechino non è solo geopolitico, ma strutturalmente economico. Gli Stati Uniti fondano il 70% del proprio PIL sui consumi interni, mentre la Cina basa il 40% del suo prodotto sugli investimenti industriali. Due modelli opposti, ma complementari nel generare squilibri.

Giovannini sottolinea come “gli Stati Uniti tollerano un enorme deficit commerciale perché il loro mercato interno, da solo, rappresenta un quarto della ricchezza mondiale: 24 trilioni di dollari su un totale globale di circa 120”. L’America esporta tecnologia, finanza, armi e soft power, consolidando la propria egemonia culturale e monetaria. La Cina, al contrario, punta al surplus commerciale come strumento di potenza, finanziando la produzione a basso costo e mantenendo il controllo sulle catene del valore globali, dalle materie prime ai porti strategici.

Dietro queste due strategie si nascondono logiche di lungo periodo: “Il neoprotezionismo serve a rallentare la produttività e le esportazioni cinesi, mentre il dumping è il mezzo con cui Pechino tenta di minare la leadership industriale statunitense”.

L’Europa e l’Italia si trovano nel mezzo di questa frizione sistemica, prive di una massa critica sufficiente per influenzare le regole del gioco.

La posizione italiana tra resilienza e immobilismo

Mentre il mondo cambia, l’Italia rimane sostanzialmente ferma. Il reddito nazionale, ricorda Giovannini, “è stagnante da vent’anni, mentre nel resto del mondo si è raddoppiato”. Il Paese continua a basare il 60% del PIL sui consumi interni e solo il 20% sugli investimenti, con le esportazioni che incidono per appena il 2% in termini di valore aggiunto.

L’analista di KPMG individua una causa culturale e dimensionale in questo blocco: la frammentazione del tessuto produttivo e l’assenza di una politica industriale coerente. “Siamo sopravvissuti grazie alla resilienza, ma ora dobbiamo tornare ad avere ambizione”, afferma, criticando la mancanza di un piano industriale capace di favorire crescita e aggregazione.

Il Made in Italy, simbolo di eccellenza e creatività, non può più affidarsi soltanto all’immagine. Giovannini mostra come “gran parte dei marchi storici italiani sia ormai passata sotto controllo estero”, in molti casi europeo più che asiatico o americano. Marchi ceduti o delocalizzati hanno trasferito anche la testa strategica fuori dal Paese, con il rischio di perdere innovazione e know-how.

Gli effetti del neoprotezionismo USA e del dumping cinese sull’industria europea

Il conflitto commerciale tra Stati Uniti e Cina genera ricadute indirette ma profonde per l’industria europea. Il neoprotezionismo USA, manifestato attraverso dazi, incentivi interni e politiche di reshoring, riduce l’accesso al mercato nordamericano per le imprese italiane. Allo stesso tempo, il dumping cinese — sostenuto da politiche statali, tassi di interesse agevolati e controllo delle materie prime — erode la competitività dei prodotti europei.

L’Italia si trova dunque a dover “ripensare la propria competizione su un campo di gioco diverso”. Non potendo vincere né sui costi, né sui volumi, deve valorizzare le aree dove il vantaggio comparato è più solido: qualità, creatività, capacità manifatturiera, design.

Giovannini insiste sulla necessità di smettere di leggere la competizione in chiave difensiva. “Se vogliamo competere con gli Stati Uniti sui dazi, perdiamo. Se vogliamo competere con la Cina sui costi, perdiamo.” L’alternativa, sostiene, è “trasformare il mercato americano in una piattaforma di collaborazione e innovazione, non solo di vendita”, e cercare nuovi spazi nei mercati emergenti, dove la crescita demografica e il fabbisogno tecnologico possono offrire opportunità.

Le nuove geografie economiche e la sfida africana

L’analisi di KPMG allarga lo sguardo anche oltre la tradizionale dialettica Est-Ovest. Giovannini ricorda che “entro il 2050 un abitante su quattro della Terra sarà africano”. L’Africa, con il suo potenziale demografico e di risorse, diventa la terza variabile nella competizione globale, un terreno su cui Stati Uniti, Cina e nuove potenze dei BRICS stanno già investendo pesantemente.

L’Italia, collocata geograficamente tra Europa e Mediterraneo, potrebbe giocare un ruolo strategico, ma rischia di non farlo per mancanza di visione comune. Il modello proposto è quello di una “politica industriale che protegga il sistema Paese senza timore di dirlo”, come fanno le altre potenze.

Protezione, in questo contesto, non significa chiusura, ma consapevolezza del proprio valore e capacità di indirizzare le risorse nazionali verso la crescita tecnologica e dimensionale.

Dal piano industriale alla dimensione d’impresa

La crescita del Made in Italy richiede una revisione delle sue fondamenta. Giovannini propone tre assi prioritari: aumento della dimensione media delle imprese, nascita di una nuova generazione imprenditoriale “già sostenibile e tecnologica”, e sviluppo di una politica industriale nazionale.

Il primo obiettivo è superare la frammentazione cronica delle filiere, che impedisce di competere su scala globale. Il secondo è promuovere un capitalismo innovativo capace di integrare intelligenza artificiale, sostenibilità e creatività. Il terzo, più politico, implica la definizione di una visione di lungo periodo che metta al centro la crescita, non la sola sopravvivenza.

Un futuro da ripensare

L’Italia, spiega Giovannini, “ha vissuto per decenni di resilienza e resistenza”, ma oggi questo non basta. Il mondo corre a velocità diverse, e l’industria nazionale deve imparare a pianificare con flessibilità, adattandosi ai mutamenti globali senza rinunciare alla propria identità.

La lezione è che la competizione tra Stati Uniti e Cina non è solo un confronto di dazi, ma la rappresentazione di due modelli di potere economico. Tra neoprotezionismo USA e dumping cinese, l’Italia può ancora trovare spazio, ma solo se trasforma la propria resilienza in strategia e la propria creatività in politica industriale.

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