La bellezza sopravvalutata che si scioglie nel pentolone dell’occaso

Agosto 23, 2025 - 06:00
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La bellezza sopravvalutata che si scioglie nel pentolone dell’occaso

Voglio dire: il cinema nei racconti, per esempio. Leggi di due che vanno al cinema (è già passato il tempo di godersi il tempo senza cinema, in due e basta, di godersi tutto il tempo sottratto agli studi, al lavoro, alle attese, agli spostamenti, alle bestie, agli umani, ai teatri, ai concerti, ai musei, ai libri, al cinema stesso, tutte noiose e insulse perdite di un tempo più piacevole). Comunque. (Io già mi fermerei su questo sbarcatoio dal quale il racconto è già partito senza me. Ma andiamo avanti.)

Nel racconto leggi che questi due hanno deciso quale film andare a vedere senza tanto entusiasmo (nell’altro tempo avrebbero deciso subito: nessun film con molto entusiasmo). Escono dal cinema dopo aver visto il film, commentano un po’: “ma, insomma, niente di che, sì, passabile, che ti devo dire?” 

Ma l’andamento annoiato della chiacchiera, usciti dal cinema, dice tutto: disagi, inquietudini, senso della fine, della fine del film ossia di tutto in generale. A questo serve la parola fine, l’unica parola che sembra avere, appunto, un senso.

Nel racconto il film appena visto introduce a una serata anche un po’ amara, malinconica, anzi no: insopportabile, fastidiosa. Il film svolge (ah, gli indimenticabili rulli) il racconto di una resa dei conti e altre ne incoraggia all’uscita dal cinema, altre rese di conti,  però più soffocate, più saggistiche che narrative, represse, taciute anche a voce (bisognerebbe avere lo stesso coraggio della propria pusillanimità). 

(A proposito, una volta per tutte: nella vita, parlando, dandoci chiacchiera, siamo saggistici o narrativi? Direi saggistici, e non è una scoperta da poco, se vogliamo tenerne conto.)

Ah, le rimembranze (comincia lui; già non sopporta questa vita in due): “Quei bei film di indiani e vaccari pistoleri mandriani, musica e montagne rocciose, sezioni archi e frecce e fiati e tamburi lontani e tamburi di colt, e zoccoli (anche nel senso di uomini con un cavallo tra le gambe), quel cinema fatto di polvere, cielo e fiume rosso e sole, e qualche pioggia in viraggi grigi e salvia, grondante dalle falde dei cappelli.

Uscivi da quei cinema con il film a fianco che camminava con te che nemmeno camminavi ma eri a cavallo (l’avevi anche tu tra le gambe) e ti srotolavi come la pellicola di celluloide, molto sensibile, molto flessibile, molto infiammabile. Facevi gli spari con la bocca e soffiavi sul dito, altro che paturnie e malumore. Quando il cinema era molto all’aria aperta, come nei nostri cortili, sulle nostre strade, nei nostri quartieri pericolosi. I parchi, queste riserve, queste civetterie, erano ancora lontani, come per quei mandriani i boschi del nord. Ma chi è che va al parco, al parco giochi? Un fessacchiotto. Noi, nella nostra infanzia, mica giocavamo. Eravamo infantili, questo sì, come i cowboy. Tendevamo a innamorarci stupidamente (c’è però altro modo?). Ma tendevamo anche (ecco che c’è un altro modo) a innamorarci per esigenze di copione. Il copione nella vita? Sì, nella vita. Perché? C’è chi nella vita va a braccio?”

(Se il punto di vista è un po’ maschile, è perché lo è. Le donne non ci cascano, non cadono nello stupidario visionario né rammemorano con tono così artatamente manierato.)

Ah, il momento critico (continua lei, che la vita a due saprebbe viverla, e benissimo, da sola): “Poi cominciò il cinema al chiuso, anche più casalingo, nel senso del tema, ma anche casigliano, condominiale, spione, si sa com’è: è il cinema fatto dai vicini di casa o di bottega. 

Ma ogni volta che si parla di una cosa dobbiamo sempre ripercorrere la storia di quella cosa? 

Non senti come parliamo? Facciamo i discorsi che si fanno al tempo dell’agonia dell’arte, poi della sua morte, che è imminente, e sarebbe ora direi. L’arte, ma non basta la solitudine? L’arte che esegue il suo assolo e noi tutte attorno zitte e mute a rimirare ascoltare lèggere… ho dimenticato qualcosa? Danzare forse e come cigni morire.”

“Le istallazioni: tralicci ingombranti, pietre tra i piedi, anche vetri, fil di ferro, anche spinati, spaghi pendenti, iuta (perché tanta iuta?), rubinetti gocciolanti (a sé stanti), strofinacci, la solitudine. Le nostre infanzie sono state tutte una istallazione, mo’ che ci penso, al tempo del nostro apprendistato presso stracciaroli, meccanici, fabbri (il fabbro ferraio, guarda un po’ che mi viene in mente; che atelier, oh che atelier scintillante), edili, carpentieri, mastri, pizzicagnoli (le robe appese, ammazza che istallazioni). Sono spine nel fianco queste istallazioni, sono struggimenti? Questi assemblaggi artistici, perché mi sembrano nostalgie, attaccamento a cose del passato, vecchiume?”

“Al massimo, guarda, gradisco gli artifizi, i virtuosismi piacevoli alla vista, gradisco la mano di qualche Artemisia, il tocco di un qualche Albrecht, capaci di bravure esecutive e meraviglie, come le meraviglie che mi faccio guardando l’opere. Ecco: uno scambio di meraviglie. È già qualcosa. no?”
“Il bello e compagnia bella.”
“Non eravamo opere d’arte, anche noi, un po’ tutte e tutti?”
“Era la credulità più diffusa in un tempo fasullo, non so se ancora.”
“La bellezza troppo sopravvalutata.”
“Che non esiste in natura.”
“La macelleria sanguinolenta di certi tramonti, striature di tendini a vista, nubi di rosei e candidi spessori di grasso, l’osso, un osso lungo orizzontale, un poco obliquo, giallo oro, spezzato anche in più punti, scomposto nel sangue. Poi tutto cala nel pentolone dell’occaso.”
“La bellezza è artificiale o artificiosa?”
“Non credi che sia di cattivo gusto, ormai, la bellezza? Notarla, intendo.”

“Una dopo l’altra, ogni forma d’arte, tutte le cosiddette manifestazione del talento inventivo, dopo aver attraversato la fase del risibile, poi del ridicolo, periranno. In futuro rideranno delle nostre espressioni artistiche (che parranno esilaranti fesserie), delle nostre rappresentazioni (i nostri drammi saranno comicità futura), dei nostri invadenti sprechi di parole, delle nostre petulanti musichette eufoniche. La musica piace perché piace all’orecchio, lo tranquillizza: non è agghiacciante? Come la linea di una cerbiatta piace alla vista, è dolce. Molto meglio una composizione stridente, discordante, spiacevole, avversa: ci fa sentire in partitura, fracassoni maleducati, ma sì. L’educazione è artificiale o artificiosa? Facciamo rumore: scappa, cerbiatta, scappa.”

Insomma, questi due escono dal cinema, appena visto il film, e fuori li aspettano i loro problemi personali che, come niente fosse, sono i problemi del mondo, perché qua fuori c’è il mondo, come è detto nel film, e, questi due, anch’essi sono (che brutta sorpresa, qua fuori) sia mondo sia essi sia film: è tutto un giro, il solito giro. 

“Quand’è che è cominciato? Quand’è che è diventato vero?”
“Cosa?”
“Ma mi ascolti? Che i nostri problemi sono i loro e, messi assieme, sono i problemi del mondo.”
“Il mondo ha i nostri problemi? Prima di tutto mi pare ridicolo. Poi, dopo tutto, mi pare allarmante, e dopo ancora: burlesco. Chi ci deride? Da dove? E poi, chi sarà mai questo mondo, scusa? E poi, anche tu, perché dài corda a questi grovigli?”
“Sei di poca attenzione, hai dimenticato l’attacco: questo è un racconto. Sono due che escono dal cinema e entrano in un racconto, per esempio fantascientifico. È roba scritta. Non è mica la vita.”
“Però a me…”
“No, non dirmelo. Ti pare che lo sia?”
“La vita, sì, che esige dal racconto una chiusa, che è questa.”

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Redazione Redazione Eventi e News