La protesta studentesca serba resiste, ma senza un’alternativa politica a Vučić

Novembre 11, 2025 - 09:31
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La protesta studentesca serba resiste, ma senza un’alternativa politica a Vučić

Dopo la lunga marcia che ha portato gruppi di studenti, provenienti da ogni parte del Paese, a Novi Sad, sono arrivate molte indiscrezioni sull’evoluzione della protesta che, una settimana fa, ha compiuto il suo primo anno: secondo alcune fonti, i manifestanti sarebbero stati pronti ad abbattere le loro stesse barricate concludendo definitivamente questa esperienza (la voce è iniziata a circolare in seguito alla fine dell’occupazione delle università di Belgrado, Niš, Novi Pazar, e la stessa Novi Sad). Non è così, dato che la ripresa delle lezioni universitarie non si traduce nella fine della protesta. Del resto, le ragioni di questa – come abbiamo potuto vedere – non si limitano al solo caso di Novi Sad.

Successivamente all’anniversario, i cortei a Belgrado non sono soltanto continuati, ma si sono spinti fino a quella che è stata, ad oggi, la loro linea di confine. Gli studenti si sono spinti a pochi metri dalle tende che circondano il Parlamento. Quello è l’accampamento dei Ćaci, militanti e fiancheggiatori del partito del presidente Aleksandar Vučić, già protagonisti di numerose provocazioni contro studenti e giornalisti, colpevoli di riportare la cronaca locale. Questo cordone a difesa della presidenza è stato condannato dalla Commissione europea nella sua recente deposizione sul caso serbo – questione che, tra poco, approfondiremo – nella quale, si legge, l’Unione chiede alla Serbia di superare questo «stallo» iniziato, almeno formalmente, un anno fa. Ma non solo: le tende sono rimaste di fronte al Parlamento. I Ćaci hanno risposto agli ultimi moti studenteschi organizzando una contromanifestazione e, secondo diverse fonti, avrebbero chiamato per l’occasione manovalanza dal Kosovo (informazione da prendere con le pinze ma coerente con altri casi simili avvenuti nel corso dell’anno).

Alla fine del 2025 la protesta non dà segno di placarsi. Gli studenti continuano a marciare, mentre davanti al Parlamento, pattugliato dai Ćaci, una donna, Diana Hrka, conduce da giorni uno sciopero della fame. È la madre di una delle vittime del disastro di Novi Sad. Ma, al di là della cronaca dei fatti che quotidianamente caratterizzano la protesta, si apre una questione che non può essere ignorata, sia dai manifestanti, sia da noi europei. Il prossimo obiettivo della società civile, che ha scelto di schierarsi attivamente contro il presidente Vučić, è ottenere elezioni anticipate: dopo una serie di piccole ma importanti vittorie, che abbiamo riportato nei precedenti approfondimenti sul tema, il voto anticipato rappresenta per la piazza il traguardo da raggiungere nel breve termine. Sembra essere la cosa più naturale, ma la sola volontà di far cadere il regime di Vučić non basta.

Contro di lui marciano tutti: dai liberali agli ultraconservatori, dagli europeisti a quelli che guardano ancora con favore alla Russia. Le divisioni non sono solo tra i cittadini e gli studenti, ma anche all’interno del movimento studentesco. Per questo, quando si parla di una possibile «lista degli studenti» da presentare alle possibili elezioni anticipate, sorge più di qualche dubbio. Per ora non c’è un’alternativa politica – strutturata e dall’agenda definita – al regime. Ed è qui che le nostre colpe, quelle di noi europei, si fanno sentire.

Nonostante la deposizione della Commissione, la frangia «nazionalista» della protesta continua a diffidare di un’Europa che, a detta loro, non ha mai considerato la questione serba se non fino a questo momento. Gli studenti europeisti accusano questo spezzone del movimento di non aver considerato, a sua volta, l’Europa se non nel momento del bisogno. La verità sta nel mezzo.

Abbiamo visto, con il disinteresse della nostra stampa, qual è stato l’approccio del pubblico europeo nei riguardi della Serbia. Ne abbiamo avuto un’ulteriore prova con il nostro governo, che continua a dialogare con Vučić, ignorando le enormi violazioni dei diritti politici che compie ogni giorno; una linea condivisa dall’Unione che, nonostante – tardivi – richiami formali, non ha voluto ascoltare quegli studenti arrivati fino a Bruxelles la scorsa primavera per richiamare l’attenzione dell’Ue su cosa stesse succedendo nel Paese.

Con la Serbia abbiamo ripetuto lo stesso errore commesso con la Georgia, dove abbiamo assistito inermi alla vittoria dei golpisti. E il fatto che, a differenza di quelle di Tbilisi, le piazze di Belgrado e delle altre città serbe non chiedano esplicitamente l’aiuto dell’Europa non è un valido motivo per accettare lo status quo.

È difficile prevedere cosa succederà in Serbia nelle prossime settimane, se la protesta subirà una battuta d’arresto o se otterrà altre vittorie. L’unica cosa certa è che Vučić non è isolato. Il presidente può contare su un alleato privilegiato che, a differenza di Mosca, ha dimostrato il suo supporto alla presidenza serba in maniera meno cerimoniosa – ma molto più diretta –: Donald Trump. Pochi giorni fa, Aleksandar Vučić ha approvato la richiesta della famiglia Trump di costruire un albergo da cinquecento milioni di dollari a Belgrado. Un’iniziativa che ha fatto storcere il naso anche all’ala nazionalista del partito di governo. Questo episodio è parte di un accordo politico molto più vasto e apre la porta a scenari politici che vanno ben oltre la repressione degli studenti. Ma ci ritorneremo presto.

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