L’Africa volta le spalle a Parigi: storia di un declino annunciato

Giugno 9, 2025 - 07:00
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L’Africa volta le spalle a Parigi: storia di un declino annunciato

di Giuseppe Gagliano

Dove un tempo si parlava francese, si studiava il diritto romano, si ascoltava RFI, oggi si inneggia a Mosca, si firmano accordi con Ankara e si costruiscono basi cinesi. Dall’Algeria al Sahel, l’eco del disincanto francese risuona in tutto il continente africano. Ma a chi attribuire la responsabilità di questo disastro geopolitico? Jacques Hogard, ex ufficiale delle forze speciali francesi, testimone e protagonista delle missioni africane, ricostruisce passo dopo passo la dissoluzione dell’influenza di Parigi in una lunga intervista a Régis Le Sommier della rivista francese Omertà (n.8 giugno 2025, pagg 30/32). Una catastrofe diplomatica che, prima ancora che militare, è culturale, ideologica, politica.
Non è stata la Russia a cacciare la Francia dal Mali, né la Turchia a espellere i diplomatici francesi dal Burkina Faso. Sono stati anni di errori, superficialità, ingerenze e condiscendenza, in cui Parigi ha perso la capacità di parlare il linguaggio dei popoli africani e ha smarrito ogni senso della realtà locale.
Secondo Jacques Hogard, questo processo non nasce con Macron. Comincia molto prima, negli anni Novanta. Con François Mitterrand, che nel celebre discorso di La Baule del 1990 impose dall’alto il modello democratico multipartitico, senza tenere conto della fragilità statuale e della composizione etnica dei Paesi africani. Una visione astratta, totalmente scollegata dalla realtà dei clan, delle famiglie, dei poteri religiosi, tribali, informali.
Prosegue con Jacques Chirac, che smantella il Ministero della Cooperazione – pilastro dell’interfaccia franco-africana – trasformandolo in una direzione secondaria degli Affari Esteri. Un atto apparentemente tecnico, che in realtà segna la rottura psicologica con le élite africane: la Francia non si interessa più a loro, li tratta come dossier amministrativi.
Il vero punto di non ritorno arriva nel 2011, con l’intervento militare in Libia voluto da Nicolas Sarkozy. Con la benedizione della NATO e l’acquiescenza degli Stati Uniti, la Francia contribuisce attivamente al rovesciamento e alla morte di Gheddafi. Ma ciò che segue è il caos: gli arsenali del regime cadono nelle mani di milizie jihadiste, ribelli tuareg, gruppi criminali transnazionali.
Quel che doveva essere una “primavera araba” si trasforma in un’ondata destabilizzante che colpisce tutta l’Africa occidentale: Mali, Niger, Burkina Faso, perfino la Costa d’Avorio. Come ricorda Hogard, l’attentato terroristico di Grand-Bassam nel 2016 è un effetto collaterale diretto di quella disintegrazione libica.
In parallelo, la Francia commette l’errore fatale di sostenere il candidato Alassane Ouattara contro Laurent Gbagbo, legittimamente eletto ma demonizzato dalla stampa francese. Le forze speciali intervengono per rovesciarlo: in Africa si parla apertamente di “golpe francese”. L’immagine della République viene macchiata per anni.
L’era Hollande si apre con l’Operazione Serval: una risposta rapida ed efficace alla minaccia jihadista in Mali. Ma invece di consolidare l’azione con un disegno politico coerente, la Francia si lancia in Barkhane, una missione regionale più ambiziosa, ma priva di una strategia chiara.
Per Hogard, è il punto di rottura definitivo: militari senza mandato politico, cooperazione fragile, incapacità di dialogare con le popolazioni locali. Il risultato è una guerra infinita, vista sempre più come occupazione. E soprattutto, un’assenza totale di messaggio: quale Mali volevamo costruire? Che visione offrivamo a quei popoli?
La risposta è stata il vuoto. E il vuoto è stato riempito da altri: Wagner in Mali, Baykar in Niger, tecnici iraniani nel Corno d’Africa, fondi cinesi ovunque.
Il colpo finale lo dà Emmanuel Macron. Non per le truppe, ma per lo stile e il disprezzo implicito. Il suo discorso di Ouagadougou del 2017, in cui redarguisce pubblicamente il presidente burkinabé davanti a una platea di studenti, è diventato un simbolo dell’arroganza postcoloniale.
Per Hogard, il problema non è solo comunicativo: è antropologico. Macron e la sua amministrazione non comprendono l’Africa. Non la ascoltano. Non la rispettano. Peggio ancora: pretendono di educarla, di “civilizzarla” nuovamente. Ma questa volta non con la lingua o con le istituzioni, bensì con le ideologie progressiste occidentali: woke, gender, identità fluide, ambientalismo dogmatico.
Per le società africane, ancora fondate su strutture comunitarie, religiose, gerarchiche, questa è una violenza culturale, una nuova colonizzazione.
L’episodio dell’ambasciatore LGBTI in Camerun, rifiutato pubblicamente, è il segnale più chiaro. Non è omofobia, spiega Hogard: è resistenza antropologica. I popoli africani difendono il loro orizzonte culturale. E vedono la Francia come un corpo estraneo, non più un partner, ma un predicatore moralista.
Eppure, non tutto è perduto. Hogard insiste: c’è ancora un terreno comune. La lingua, la storia, la memoria. I leader africani che oggi attaccano Parigi parlano francese. Gli studenti usano manuali francesi. I militari leggono i regolamenti in francese. È la lingua che tiene insieme decine di etnie, regioni, clan.
Ma ora siamo in piena fase di rigetto. Una crisi di crescita, forse. Una disillusione profonda, sicuramente. Per ricostruire, servirà tempo, silenzio, rispetto.
E una condizione essenziale: che la Francia torni a essere un Paese capace di ascoltare. Un Paese che non impone, che non esporta modelli, ma che riconosce negli altri popoli la stessa dignità, la stessa profondità, la stessa complessità.
Fino ad allora, conclude Hogard, la Francia sarà solo un’eco imperiale che nessuno vuole più ascoltare.

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