L’eterna cultura del favore che mantiene intatto il potere in Sicilia

Novembre 7, 2025 - 18:00
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L’eterna cultura del favore che mantiene intatto il potere in Sicilia

Non è Cuffaro, siamo noi. La Sicilia dei servi. In uno splendido articolo Francesco Bei parlando del ritorno al “disonore” delle cronache di Totò Cuffaro non parla in fondo del ex governatore ma parla di noi siciliani.  Di ciò che simbolicamente incarniamo, la parte peggiore della Sicilia. Quella che non muore mai, che si rigenera sotto altre forme, con altri sorrisi, con nuovi vassoi di cannoli, ma sempre con lo stesso odore stantio di sudditanza e convenienza.

Perché Cuffaro non è solo un uomo politico condannato per favoreggiamento mafioso, non è neppure il macchuettistico e in fondo ingiusto Totò vasa vasa da barzelletta o il medico radiato che dispensa perdono e poltrone. È un simbolo perfetto della nostra complicità, della cultura servile dei siciliani all’ennesimo Viceré, o autoproclamatosi tale, che attraversa da sempre la storia dell’Isola.  E se è tornato a essere potente, più potente di prima, è solo perché noi siciliani glielo abbiamo permesso. Non perché siamo schiavi del potente di turno — gli schiavi nascono tali, senza scelta — ma perché siamo servi, e la servitù, a differenza della schiavitù, è una forma di scelta morale. 

Scegliamo di inchinarci, di applaudire, di riconoscere al potente una sorta di diritto naturale a comandare, anche dopo aver scontato condanne infamanti. Facciamo schifo. E non ci salvano Falcone, Borsellino o gli altri martiri siciliani: li invochiamo come santi da processione, li portiamo a spalla nelle giornate della memoria, ma sotto la vara bestemmiamo, e manco sottovoce. Usiamo i morti per pulirci la coscienza e tornare alla vita di sempre, dove chi ha potere lo conserva, chi l’ha perduto lo riconquista, e chi non ne ha si accontenta di un favore, di un sorriso o di un cannolo.

L’articolo di Bei coglie con precisione chirurgica il cuore di questa patologia. Il potere in Sicilia non muore mai, si ricicla come un organismo perfetto, immune a ogni forma di vergogna. E così, dopo il carcere, Cuffaro organizza dibattiti sull’etica pubblica insieme ad altri condannati e pregiudicati eccellenti. Il paradosso non scandalizza nessuno: è la normalità.

In un Paese dove la morale è diventata una categoria estetica, un vezzo per anime belle, mentre il potere vero si misura nella capacità di dissimulare, riciclarsi, mimetizzarsi. È il trionfo del nichilismo siciliano, quello che Leonardo Sciascia conosceva bene. Non a caso Cuffaro cita Sciascia e il suo immaginario dialogo tra Garibaldi e Ippolito Nievo, come se bastasse evocare il nome di un intellettuale per nobilitare la propria omertà. Ma quel Nievo che Sciascia fa parlare non è il portavoce della retorica del silenzio: è la voce del coraggio silenzioso, di chi tace per pudore, non per connivenza. Sciascia lo sapeva: la Sicilia vive nel confine tra verità e dissimulazione, e il potere, qui, si esercita sempre in maschera, come in un eterno carnevale morale.

Oggi Carlo Calenda ha detto che la Regione Siciliana andrebbe prima commissariata e poi eradicata. Parole dure, ma forse non ingiuste. Perché la Regione non è altro che lo specchio istituzionale del nostro vizio d’origine: un teatro dell’assistenzialismo, del baratto, del piccolo cabotaggio politico, dove le mafie e le clientele si travestono da normalità amministrativa.

La verità è il sistema digestione del potere feudale non è mai morto politicamente perché la Sicilia che lo ha generato non è mai cambiata. E non cambierà finché non smetteremo di sentirci vittime e inizieremo a riconoscerci complici. Perché non è Totò. Siamo noi. E allora, quando Nievo, nel racconto di Sciascia, dice a Garibaldi che «questo popolo ha bisogno di essere conosciuto e amato in ciò che tace», dovremmo avere il coraggio di leggere quella frase al contrario: non tutto ciò che tace è nobile, non tutto ciò che tace è pudore.

A volte il silenzio è la lingua della viltà. E se continuiamo a tacere, a fingere di non vedere, allora meritiamo davvero quel sistema di potere con i cannoli, i baci, le poltrone e tutto il resto. La domanda, al massimo, che ci porremo è se i cannoli li preferiamo con o senza la scorza di arancia candita, ma, al limite, neanche quella, la scorza candita la togliamo e il cannolo ce lo mangiamo senza, cosi il potente di turno non si dispiace e noi con lui. Sabbanadica.

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