L’Europa ha un problema serio con la produzione di metalli critici

L’Europa ha un nuovo problema urgente, e somiglia molto a quello che ha già vissuto con il gas russo. Dopo aver ridotto in pochi anni la dipendenza energetica da Mosca, che fino a quattro anni fa sembrava permanente e irreversibile, i paesi europei rimangono esposti in un settore ancor più cruciale, quello dei metalli critici. Senza questi materiali non esiste la base tecnologica della vita industriale moderna: chip, batterie, sistemi di difesa, pannelli solari, turbine eoliche. Prendiamo per esempio il germanio, un metallo sconosciuto ma essenziale per sensori, fibra ottica e tecnologie di difesa, la previsione per i prossimi dieci anni è un aumento della domanda del trenta per cento nell’Unione europea. Ma negli ultimi dieci anni un terzo dei grandi impianti europei di raffinazione dei metalli di base ha chiuso o ha dovuto ridurre drasticamente la produzione. Alcuni stabilimenti sopravvivono grazie a investimenti privati molto ingenti, ma con margini sempre più stretti.
La dimensione del problema è chiara a tutti, da Bruxelles a Lisbona: la domanda di molti metalli strategici sta crescendo in modo vertiginoso, mentre la capacità europea di estrarli, raffinarli e trasformarli è scesa a livelli minimi. Bisogna costruire al più presto una filiera più autonoma, moderna e capace di reggere la pressione dei mercati globali. Altrimenti avremo un’enorme domanda di materiali strategici, una capacità interna ridotta e una dipendenza quasi totale dalle importazioni. E sarà inutile parlare di sovranità industriale in un continente che non controlla i materiali essenziali della propria tecnologia.
In un interessante approfondimento il Financial Times spiega come ha fatto la Cina a controllare oggi gran parte della capacità globale di raffinazione dei metalli industriali e delle terre rare. È un risultato di una strategia nata proprio per avere un presidio inscalfibile dei materiali che permettono lo sviluppo tecnologico. Invece in Europa abbiamo dormito sonni tranquilli: dagli anni Novanta non è stato costruito da zero neanche un nuovo stabilimento di raffinazione dei metalli. I paesi Ue si sono limitati a mantenere e ristrutturare impianti vecchi, spesso nati negli anni Settanta e Ottanta. Risultato: la filiera europea è rimasta ferma mentre altre regioni del mondo costruivano stabilimenti più grandi, più efficienti e più integrati. L’unico incremento produttivo significativo è arrivato dal grande impianto di Bor, in Serbia, che però è controllato da una società cinese.
Il problema non è solo di disponibilità ma anche di prezzo Si tratta dei compensi che le fonderie ricevono per trasformare il minerale grezzo in metallo utilizzabile, e che negli ultimi anni sono scesi a livelli tali da non coprire più i costi industriali. Tradotto: gli impianti di fusione e raffinazione lavorano molto, guadagnano poco e non riescono a recuperare gli investimenti necessari per rinnovare le strutture, soprattutto in un continente in cui l’energia resta più cara rispetto ai concorrenti asiatici o sudamericani.
Alcuni grandi operatori industriali, come Trafigura, gruppo globale con sede a Singapore che controlla diversi impianti metallurgici europei attraverso la società Nyrstar, hanno investito centinaia di milioni di euro per mantenere aperti gli impianti di fusione e raffinazione europei che garantiscono migliaia di posti di lavoro diretti e nell’indotto. Ma anche investitori di questa scala riconoscono che un settore strategico non può reggersi soltanto sul mercato quando subisce perdite strutturali. Senza un intervento pubblico che riduca i costi energetici, migliori la competitività e renda possibili nuovi investimenti, molte di queste infrastrutture rischiano di ridimensionarsi ulteriormente.
Il tema quindi non è il cosa e quando, ma il come farlo rapidamente. Nelle cancellerie europee la discussione si concentrata su tre leve principali. La prima riguarda la modernizzazione degli impianti esistenti, per aumentarne l’efficienza e la capacità di recuperare i metalli critici che oggi sfuggono ai processi tradizionali. Le stime sugli investimenti necessari oscillano tra settantacinque e centocinquanta miliardi di euro. È una cifra molto alta, ma non impossibile se confrontata con il valore della produzione dei settori che dipendono direttamente da questi materiali, come l’automotive, la difesa e l’energia rinnovabile.
La seconda leva riguarda strumenti più innovativi: accordi di acquisto a lungo termine per garantire alle imprese una domanda stabile, riserve strategiche per metalli critici, e un uso più strutturato delle politiche commerciali per tutelare produzioni considerate essenziali. La terza è la politica estera: nuovi accordi con paesi produttori come Australia, Canada, Cile e Namibia, e allo stesso tempo una relazione più stabile con la Cina per ridurre l’incertezza sulle licenze di esportazione.
Molte di queste iniziative si stanno concentrando nel quadro della strategia europea RESourceEU, pensata per fare con i metalli ciò che REPowerEU ha fatto con il gas: ridurre la dipendenza, diversificare rapidamente, accelerare i permessi per i nuovi progetti, e creare un percorso che permetta all’Europa di avere almeno una parte della filiera produttiva al proprio interno. Gli obiettivi fissati dal Critical Raw Materials Act sono molto ambiziosi: estrarre almeno il dieci per cento del fabbisogno europeo entro il 2030, raffinarne il quaranta per cento e riciclarne il venticinque per cento. Un obiettivo ambizioso, ma indispensabile. La corsa per i metalli rari è iniziata e non aspetta nessuno, neanche noi europei.
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