Maranza, il carcere non è la soluzione ma parte del problema
I tragici fatti di corso Como, a Milano, con un giovane accoltellato da un gruppo di altri ragazzi in seguito al furto di una banconota da 50 euro, sembrano essere la ciliegina sulla torta per chi, a destra e a sinistra, riscopre la vocazione securitaria. A maggior ragione, vista la giovane età degli aggressori, legittimerebbe il varo del decreto Caivano, che ha ampliato il ruolo della sfera penale nel trattamento della devianza minorile.
A una riflessione più accurata, però, si approda ad altre conclusioni. In particolare, quella che il carcere e le altre misure contenitive, non rappresentano la soluzione, bensì il problema, in quanto rimuovono la necessità di sciogliere dei nodi che aggrovigliano la società italiana odierna. La messa in atto di comportamenti violenti viene ascritta ai giovani, che infrangerebbero la patina di una società pacificata e armoniosa, secondo i desiderata del mercato. In realtà, ci insegna Wolfgang Sofsky, la violenza, nella modernità, non scompare mai del tutto. Si rimuove, si occulta, ma si ripropone sotto altre forme in contesti diversi.
In una società permeata in profondità dalla competizione della società di mercato, disegnata sulla logica binaria dell’inclusione e dell’esclusione, è inevitabile che la violenza si manifesti. Soprattutto, quando gli adulti inscenano le ronde, vogliono ampliato il diritto alla legittima difesa, ritengono che la proprietà sia più sacra della vita. I giovani, con la fluidità e l’indefinitezza che li contraddistingue, recepiscono questa ondata di risentimento che pervade la società, e lo restituiscono sotto forme cruente, ancorché mediate dai social. Non è casuale che gli aggressori volessero realizzare un video delle conseguenze delle loro gesta per poi caricarlo. Al risentimento, si mescola l’aspetto espressivo, il voler manifestare la propria presenza, uscendo dalle maglie sempre più strette della marginalità che rende, tra le altre cose, anonimi. Un’esigenza espressa in forme violente e pericolose.
Inoltre, nella rappresentazione dei fatti tragici di corso Como, troviamo un elemento di novità. L’apparato mediatico italiano, da trent’anni, si affanna a cercare la nazionalità o l’etnia degli aggressori, con la convinzione di trovarci un rom, un migrante, un rifugiato. Stavolta, la categorizzazione etnico-razziale, non viene utilizzata. Viene perciò sostituita da un altro tipo di schema binario, che parte dallo status della vittima. Si sottolinea che il giovane aggredito fosse un bocconiano, ovvero studente di una delle università più prestigiose d’Italia, destinata alle future élite. In altre parole, si tira fuori la differenziazione di classe, in una contrapposizione schematica tra i bravi ragazzi che vogliono trovarsi un posto nella società di mercato, e i selvaggi, marginali, perditempo, che li minacciano. Ecco che, dopo trent’anni di securitarismo spinto, emerge il convitato di pietra della sicurezza. I sicuri devono essere quelli che si integrano o tentano di integrarsi nella società neoliberista.
La minaccia proviene sempre da chi dispone di minori risorse materiali, simboliche e relazionali. Soprattutto, che siano italiani contro migranti, rom e rifugiati, che siano bocconiani contro maranza, si punta sempre a tracciare un confine tra chi è ammesso al consesso civile e chi ne va escluso. Siamo in presenza della negazione esplicita dei conflitti laceranti che attraversano la società contemporanea. Si preferisce dividere, escludere, rimuovere, piuttosto che intervenire in profondità per sanare le fratture esistenti. Evitando di rendersi conto che il cumulo di zone rosse, DASPO, presidi di polizia, misure repressive, carcerazione di massa, lungi dal risolvere i conflitti, finiscono per esacerbarli, in quanto creano un bacino di esclusione permanente all’interno del quale si forma il brodo di coltura di nuove forme di devianza e violenza. Oppure, chi evita di farlo, lo sa. Altrimenti, come farebbe a prendere voti? Anche a sinistra. E ci dispiace molto sottolinearlo.
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