L’aumento del salario minimo nel Regno Unito: cosa cambia davvero
L’annuncio di un nuovo aumento del salario minimo nel Regno Unito, presentato dalla cancelliera Rachel Reeves all’interno del Budget 2025, rappresenta uno dei passaggi più significativi della politica economica britannica degli ultimi anni. Non si tratta soltanto di una revisione tecnica delle fasce retributive, ma del tentativo di rispondere a un Paese ancora scosso dal costo della vita, dalla stagnazione dei salari reali e da un mercato del lavoro in trasformazione. Le nuove misure interesseranno milioni di persone e riaccendono un dibattito che coinvolge governo, imprese, sindacati ed economisti, divisi tra l’esigenza di garantire retribuzioni più dignitose e la paura che incrementi troppo rapidi possano danneggiare i giovani e le assunzioni. In questo quadro complesso, l’aumento del salario minimo nel Regno Unito diventa una lente attraverso cui osservare non solo la condizione dei lavoratori, ma anche le fragilità strutturali dell’economia britannica contemporanea.
L’aumento del salario minimo nel Regno Unito e gli obiettivi dichiarati dal governo
L’aumento del salario minimo nel Regno Unito presentato da Reeves si inserisce in una strategia politica che ha come obiettivo dichiarato quello di “ricostruire il Paese dal basso”, rispondendo a un malcontento diffuso fra i lavoratori a basso reddito. Le cifre rese pubbliche sono chiare: dal prossimo aprile la National Living Wage per chi ha più di ventun anni passerà da 12,21 sterline a 12,71 sterline l’ora, un incremento del 4,1% che, secondo il Tesoro, garantirà a circa 2,4 milioni di lavoratori un aumento di circa 900 sterline all’anno. Una misura che, nelle intenzioni del governo, dovrebbe offrire un sostegno diretto a chi ha più sofferto l’impatto dell’inflazione e la crescita del costo della vita, una delle emergenze più evidenti negli ultimi due anni nel Regno Unito.
La cancelliera ha sottolineato che “troppi lavoratori stanno ancora faticando a far quadrare i conti”, ribadendo la necessità di ricompensare adeguatamente il lavoro, un messaggio politico che risuona con forza in un Paese dove la produttività ristagna e dove la percezione pubblica è quella di servizi in difficoltà, salari fermi e un costo della vita che continua a mettere sotto pressione famiglie e giovani. A questo si aggiunge la volontà del governo di ridurre le storiche disparità salariali tra fasce d’età: per i lavoratori tra i 18 e i 20 anni, infatti, il salario minimo aumenterà dell’8,5%, arrivando a 10,85 sterline l’ora, mentre per i 16-17enni e gli apprendisti è previsto un aumento del 6%, che porterà la paga minima a 8 sterline.
Queste misure sono state annunciate in un contesto in cui il Labour, prima delle elezioni, aveva promesso di abolire le diverse tariffe giovanili considerate “discriminatorie”, un obiettivo che tuttavia non trova ancora un’applicazione immediata. La decisione del governo di seguire interamente le raccomandazioni della Low Pay Commission mostra però la volontà di procedere in modo graduale, senza adottare cambiamenti improvvisi che potrebbero influire negativamente sull’occupazione giovanile. L’impegno dichiarato è quello di “alzare il pavimento dei salari” e costruire un mercato del lavoro più equo, pur mantenendo una certa flessibilità operativa.
A rafforzare la narrazione governativa c’è l’intenzione di garantire una risposta concreta all’emergenza costo della vita, ormai da tempo al centro del dibattito pubblico britannico. Lo stesso Reeves ha ricordato che “il costo della vita è ancora la principale preoccupazione per milioni di persone”, una constatazione confermata dai dati diffusi dall’Office for National Statistics e da analisi indipendenti come quelle del Resolution Foundation, uno dei principali think tank specializzati in disuguaglianze salariali e politiche retributive. Per collocare queste misure nel quadro istituzionale attuale è utile fare riferimento al portale del governo britannico dedicato agli standard retributivi, che riporta l’evoluzione normativa e le linee guida sul National Minimum Wage e sul National Living Wage (GOV.UK – Minimum Wage).
L’aumento del salario minimo nel Regno Unito rappresenta inoltre un modo per il governo di dimostrare una discontinuità politica rispetto alle amministrazioni precedenti, accusate da più parti di aver lasciato stagnare i salari mentre l’inflazione aumentava. La narrativa del Labour punta infatti a presentare il partito come difensore della “working class britannica”, rispondendo a un clima sociale segnato dalla crescente insicurezza economica e dall’aumento delle disuguaglianze. Per rafforzare questa prospettiva, l’esecutivo insiste sull’idea che mettere più soldi nelle tasche dei lavoratori significhi anche sostenere l’economia dei territori, favorendo i consumi, la vitalità delle high street locali e la stabilità delle comunità.
Tuttavia, il dibattito non è privo di tensioni. Alcuni membri del Tesoro e diversi funzionari hanno espresso timori concreti riguardo agli aumenti più consistenti destinati ai giovani lavoratori. Il rischio percepito è quello che l’innalzamento troppo rapido del salario minimo possa “prezzare fuori” i giovani dal mercato del lavoro, limitando l’accesso ai primi impieghi e aumentando ulteriormente il numero di ragazzi classificati come NEET, cioè non impegnati né in percorsi educativi né in attività lavorative. Il conflitto è tra la volontà politica di costruire un sistema retributivo più equo e l’esigenza economica di non compromettere l’accesso al lavoro nei settori più fragili.
Gli effetti dell’aumento sui giovani e il nodo dei NEET
L’aumento del salario minimo nel Regno Unito assume un significato particolare quando si osserva il suo impatto sulle fasce più giovani della forza lavoro, un segmento che negli ultimi anni ha vissuto oscillazioni significative nelle prospettive occupazionali. La decisione di aumentare l’8,5% la retribuzione minima dei lavoratori tra i 18 e i 20 anni, portandola a 10,85 sterline l’ora, è stata accolta con favore da molti osservatori che da tempo denunciano le disparità retributive tra adulti e giovani, spesso costretti a salari inferiori pur svolgendo compiti identici. Tuttavia, questa misura ha generato perplessità in una parte dell’amministrazione e in alcuni analisti indipendenti, preoccupati che l’incremento possa incidere negativamente sulle opportunità di assunzione in una fascia di età già caratterizzata da fragilità e incertezze.
Il tema dei NEET – giovani che non studiano, non lavorano e non seguono percorsi formativi – è particolarmente centrale nell’articolo pubblicato da The Guardian. Secondo i dati citati, negli ultimi due anni il numero di persone tra i 16 e i 24 anni classificate come NEET è cresciuto di 195.000 unità, raggiungendo quota 940.000, una soglia che non si vedeva dal 2012. La tendenza al rialzo solleva timori significativi, poiché non si tratta di un fenomeno isolato ma del possibile segnale di un cambiamento più profondo nelle dinamiche sociali e lavorative del Regno Unito. Le cause di questo aumento sono molteplici: gli effetti prolungati della pandemia, l’incertezza del mercato post-Covid, la pressione del costo della vita che colpisce le famiglie e spinge molti giovani a rinunciare agli studi, la difficoltà di entrare stabilmente in un mercato del lavoro che privilegia competenze e qualifiche sempre più avanzate.
Il Resolution Foundation, think tank specializzato in analisi economica e sociale, mette l’accento su un altro elemento rilevante: un salario minimo più elevato, se da un lato garantisce maggiore dignità lavorativa, dall’altro può rendere più difficile per i giovani accedere a lavori entry-level, soprattutto nelle piccole imprese o nei settori che dipendono da contratti a basso margine. Secondo gli economisti citati nell’articolo, il rischio è quello di un equilibrio troppo fragile, in cui l’aumento dei costi retributivi potrebbe spingere alcune aziende a ridurre il numero di assunzioni, affidarsi a soluzioni automatizzate o preferire lavoratori più esperti, considerati più produttivi a fronte di un costo orario simile.
In questo scenario complesso, l’aumento del salario minimo nel Regno Unito diventa un tema che non riguarda solo la quantità del compenso, ma anche la qualità e la stabilità delle opportunità lavorative offerte alle nuove generazioni. Un punto evidenziato dall’articolo riguarda la preoccupazione interna al Tesoro e da alcuni consiglieri governativi, secondo i quali un approccio troppo aggressivo verso l’aumento del minimo salariale potrebbe richiedere una revisione più flessibile e attenta alle condizioni del mercato. È un dibattito che tocca direttamente la missione della Low Pay Commission, l’organismo consultivo incaricato di raccomandare al governo le soglie salariali più appropriate, tenendo conto del contesto economico generale, della produttività media dei settori e della capacità delle imprese di sostenere i costi.
La relazione tra giovani, occupazione e incremento salariale è ulteriormente complicata dal quadro storico recente. Negli anni successivi alla crisi finanziaria del 2008, il Regno Unito ha assistito a una progressiva riduzione del peso dei NEET, grazie a politiche di inserimento lavorativo e a un mercato in espansione. Tuttavia, l’impatto del Covid-19 ha invertito la rotta, portando molte aziende a congelare le assunzioni e generando un clima di insicurezza che ha inciso profondamente sulle scelte di studio e lavoro dei giovani. La combinazione tra crescita dei costi energetici, aumento degli affitti e inflazione sui beni di prima necessità ha creato un ambiente in cui molti giovani faticano a mantenersi anche quando riescono a trovare un impiego regolare.
Un altro aspetto chiave riguarda la differenza tra salario nominale e salario reale. Anche con gli aumenti proposti, i salari minimi faticano a tenere il passo con il costo della vita nel Regno Unito, soprattutto nelle grandi città come Londra, Manchester, Bristol e Edimburgo. L’ONS ha più volte evidenziato che, nonostante gli aumenti del salario minimo degli ultimi anni, molte famiglie continuano a vivere in condizioni di precarietà economica, con una quota crescente di lavoratori che pur avendo un impiego ricade nella categoria dei working poor. Per riportare il tema nel suo contesto istituzionale, è utile ricordare che le analisi dell’Office for National Statistics sono accessibili attraverso i report ufficiali dedicati all’inflazione e al potere d’acquisto (Office for National Statistics).
All’interno di questo quadro, l’aumento del minimo salariale rischia di generare effetti contrastanti: da un lato offre un sollievo immediato a milioni di persone, dall’altro potrebbe alimentare una spirale di difficoltà per coloro che si affacciano per la prima volta al mercato del lavoro. Proprio per questo il dibattito politico rimane acceso, e all’interno del governo il confronto tra protezione dei salari e tutela dell’occupazione giovanile appare destinato a proseguire.
La vera sfida, dunque, è quella di conciliare un sistema di retribuzione più equo con politiche mirate di inclusione lavorativa, formazione professionale e sostegno economico alle aziende che assumono giovani. Non è un caso che diversi analisti invocano una strategia a lungo termine che non si limiti ad aumentare i salari, ma favorisca la creazione di percorsi di qualità, capaci di offrire stabilità e crescita professionale. Proprio perché il salario minimo nel Regno Unito è oggi uno dei più alti al mondo, il Paese si trova di fronte alla necessità di evitare che la soglia elevata diventi un ostacolo anziché un’opportunità per le nuove generazioni.
Il ruolo delle imprese e le pressioni sul mercato del lavoro britannico
Il dibattito attorno all’aumento del salario minimo nel Regno Unito non può essere compreso senza osservare da vicino la posizione delle imprese, che rappresentano un attore essenziale nell’equilibrio fra retribuzioni, occupazione e sostenibilità economica. Negli ultimi cinque anni, il salario minimo è cresciuto del 40%, passando da 8,72 sterline l’ora nel 2020 alle 12,71 previste dal nuovo aumento per i lavoratori sopra i ventun anni. Una progressione così rapida è stata salutata da molti come una risposta necessaria alle disuguaglianze salariali e all’aumento vertiginoso dei prezzi, ma ha generato anche una serie di conseguenze per le aziende, in particolare per quelle di piccole e medie dimensioni, che operano con margini ridotti.
Le imprese lamentano l’impatto combinato di diversi fattori che negli ultimi anni hanno reso più complessa la gestione del personale. L’aumento del National Insurance introdotto nel periodo post-pandemico ha già gravato sui costi del lavoro, e molte aziende, soprattutto nel settore della ristorazione, del retail e dei servizi alla persona, hanno dovuto adeguare i bilanci a spese crescenti che non sempre possono essere trasferite sui prezzi finali. A questo si aggiungono le nuove garanzie previste dal pacchetto di diritti del lavoro promosso dal governo, che include norme più rigide su contratti, sicurezza e formazione, elementi indispensabili per migliorare la qualità del lavoro ma non semplici da implementare in contesti dove la forza lavoro è numerosa, giovane e spesso impiegata in contratti part-time.
Il problema più evidente riguarda il rischio di una contrazione delle assunzioni. Quando il costo minimo per assumere un lavoratore aumenta in modo significativo, alcune imprese, soprattutto quelle che competono su prezzi bassi o che dipendono da volumi elevati di personale poco qualificato, si trovano costrette a valutare alternative: riduzione delle ore di lavoro, aumento dei carichi per il personale rimanente, automazione di alcune mansioni, o in casi estremi la chiusura di attività non più sostenibili. L’adozione di sistemi automatizzati – dai chioschi self-service nei fast food alle casse automatiche nei supermercati – è diventata una soluzione sempre più frequente, spinta anche dalla necessità di contenere i costi in un mercato che ormai da anni si trova in difficoltà strutturale.
Un altro elemento chiave del dibattito riguarda la differenza tra grandi gruppi e piccole imprese. Se le catene multinazionali o i brand retail più solidi possono assorbire gli aumenti del salario minimo nel Regno Unito grazie a economie di scala e margini più robusti, le attività indipendenti rischiano maggiormente di soffrire l’impatto della riforma. Bar, ristoranti, negozi di quartiere e piccole aziende familiari, spesso già colpite da affitti commerciali in aumento e costi energetici elevati, si trovano a fare i conti con un’ulteriore pressione economica. Alcuni imprenditori segnalano che, pur condividendo la necessità di garantire salari dignitosi, l’incremento rischia di aggiungere un ulteriore strato di precarietà alle attività più fragili, costringendo molte a ridurre le ambizioni di crescita o a rinunciare a nuove assunzioni.
Le analisi degli economisti citati nell’articolo evidenziano inoltre che la crescita del salario minimo, pur essendo un elemento positivo per i lavoratori, non è stata seguita da un aumento equivalente dei salari medi complessivi nel Paese. Si registra, infatti, una stagnazione del salario medio reale, che non ha tenuto il passo con l’inflazione e con il costo della vita. In questo contesto, il salario minimo nel Regno Unito è diventato una sorta di punto di riferimento anche per i salari più alti, esercitando una pressione verso l’alto su tutto il sistema retributivo, ma senza generare un aumento significativo della produttività.
La produttività stessa rappresenta un’altra variabile centrale. Il Regno Unito è da anni alle prese con un rallentamento della crescita della produttività, che ha implicazioni profonde sulla capacità delle aziende di sostenere salari più elevati senza compromettere la competitività internazionale. Il settore dei servizi, che domina l’economia britannica, è particolarmente sensibile a questo tipo di dinamiche, poiché spesso basa la propria attività su lavori intensivi in termini di personale e con margini ristretti, come l’ospitalità, il turismo, i servizi alla persona o il commercio al dettaglio.
Proprio per questo, alcuni analisti invocano un approccio più ampio alle politiche del lavoro, che includa non solo incrementi salariali, ma anche incentivi all’innovazione, programmi di formazione avanzata e investimenti in nuovi settori capaci di generare occupazione di qualità. Il governo, per parte sua, insiste sul fatto che l’aumento del salario minimo rappresenta un tassello indispensabile per ridurre la povertà lavorativa e aumentare la partecipazione al mercato del lavoro, ma dovrà misurarsi con un contesto produttivo che richiede maggiore attenzione alla sostenibilità delle imprese.
Nel dibattito pubblico, la posizione delle imprese viene spesso contrapposta a quella dei sindacati, che vedono negli aumenti una conquista sociale necessaria e attesa da anni. Il Trade Union Congress (TUC) ha accolto positivamente le nuove misure, sottolineando che “un aumento sopra l’inflazione farà una reale differenza per i lavoratori a basso reddito”, e che l’eliminazione progressiva delle tariffe giovanili è un passo verso un sistema più equo. Tuttavia, dietro l’apparente contrapposizione tra imprese e sindacati, si nasconde una complessità più profonda: entrambi gli attori riconoscono l’importanza di salari dignitosi, ma divergono sui tempi e sulle modalità con cui raggiungere un equilibrio stabile.
In questo senso, il salario minimo nel Regno Unito si conferma un terreno di confronto multilivello, in cui le priorità sociali si intrecciano con le condizioni economiche e con le scelte strategiche necessarie per garantire un mercato del lavoro in equilibrio. La sfida del prossimo futuro sarà trovare una sintesi efficace tra esigenze apparentemente divergenti, senza dimenticare che l’obiettivo finale è garantire un sistema capace di offrire opportunità reali, salari adeguati e condizioni di lavoro stabili a tutti i cittadini britannici.
Le ricadute sociali dell’aumento del salario minimo nel Regno Unito
L’aumento del salario minimo nel Regno Unito non produce effetti soltanto sul mercato del lavoro o sui bilanci delle imprese, ma incide in modo profondo sul tessuto sociale del Paese. Per comprendere la portata reale di questa misura è necessario considerare il ruolo che il salario minimo svolge all’interno della società britannica contemporanea, un contesto segnato dalla crescita delle disuguaglianze e dalla pressione economica che colpisce in modo particolare le fasce più vulnerabili della popolazione. Negli ultimi anni, l’emergere di una nuova generazione di “working poor” ha rappresentato uno dei nodi centrali nel dibattito pubblico: persone che, pur lavorando a tempo pieno, non riescono a coprire le spese essenziali, soprattutto nelle grandi città dove il costo della vita cresce a un ritmo ben superiore agli stipendi medi.
L’aumento previsto dal governo si inserisce in questa cornice come un tentativo di alleggerire la pressione quotidiana su milioni di famiglie. Per molti lavoratori, soprattutto per quelli impiegati nei settori a basso salario – dalla ristorazione ai servizi di pulizia, dalle vendite al dettaglio all’assistenza domiciliare – il nuovo minimo salariale rappresenta una differenza tangibile, capace di influire sulle scelte di vita, sulla possibilità di risparmiare o semplicemente di sostenere spese inevitabili come l’affitto, i trasporti e le bollette. Il governo sottolinea che l’aumento permetterà a 2,4 milioni di persone di ottenere circa 900 sterline in più all’anno, un importo che, in un contesto economico stabile, potrebbe sembrare modesto, ma che nel quadro attuale assume un valore non trascurabile.
Tuttavia, l’efficacia sociale del provvedimento dipende da vari fattori che vanno oltre l’importo nominale del salario. Il costo della vita nel Regno Unito, in particolare nell’ultimo triennio, ha registrato aumenti significativi, soprattutto in ambiti come l’energia, gli alimentari e i trasporti, settori che incidono in modo sproporzionato sui bilanci delle famiglie a basso reddito. Anche gli affitti hanno continuato a crescere, soprattutto nelle metropoli come Londra, dove l’accesso a un alloggio adeguato è diventato sempre più difficile anche per chi lavora a tempo pieno. In questo senso, l’aumento del salario minimo nel Regno Unito è solo uno degli strumenti necessari per affrontare una questione più ampia: la sostenibilità economica della vita quotidiana per la maggioranza dei cittadini.
Un altro aspetto sociale importante riguarda la percezione della dignità del lavoro. Il Regno Unito ha attraversato periodi di forte tensione nelle relazioni industriali, con numerosi scioperi nel settore dei trasporti, della sanità, dell’istruzione e dei servizi pubblici. Molti lavoratori hanno denunciato retribuzioni ferme da anni, turni difficili e una sensazione crescente di mancanza di riconoscimento, soprattutto dopo il periodo della pandemia in cui molte categorie hanno garantito la continuità dei servizi essenziali. L’aumento della retribuzione minima è visto da molti come un segnale politico importante, un tentativo di ristabilire fiducia tra lavoratori e istituzioni e di riconoscere il valore del lavoro nei settori meno retribuiti.
Tuttavia, esiste anche un rovescio della medaglia, più complesso e meno immediato. Una parte dei sociologi e degli economisti mette in guardia contro un possibile effetto paradossale: se l’aumento del minimo salariale diventa l’unica risposta alle difficoltà economiche, senza essere accompagnato da politiche più ampie su casa, trasporti, istruzione e sanità, rischia di generare aspettative che non possono essere soddisfatte. Il salario minimo nel Regno Unito, per quanto elevato rispetto a molti altri Paesi, non può da solo compensare problemi strutturali come il divario regionale nei servizi, la precarietà crescente nei contratti flessibili o l’aumento dei costi dell’abitare.
Il dibattito sociale si interseca anche con una questione generazionale. I giovani, come mostrano i dati sui NEET, si trovano spesso esclusi dal mercato del lavoro o in una posizione di forte instabilità. Allo stesso tempo, molti giovani adulti – tra i 25 e i 35 anni – affrontano un clima di incertezza economica che rende sempre più difficile costruire un progetto di vita stabile. Per questi soggetti, l’aumento del salario minimo rappresenta un aiuto concreto, ma non risolve problemi come la scarsità di alloggi accessibili o la difficoltà di ottenere un mutuo, temi che richiedono politiche parallele e un maggiore intervento pubblico. Il governo, consapevole di queste dinamiche, promette di affrontare il costo della vita con misure strutturali, ma la percezione generale rimane quella di un Paese in cui molti lavoratori continuano a sentirsi vulnerabili nonostante gli aumenti retributivi.
Un ulteriore elemento sociale riguarda l’impatto dell’aumento nelle diverse aree del Paese. Se in molte regioni del nord dell’Inghilterra, del Galles e della Scozia il nuovo salario minimo può rappresentare un cambiamento significativo, in città come Londra – dove il London Living Wage, promosso da enti locali e associazioni indipendenti, supera già da anni il salario minimo nazionale – molti ritengono che l’aumento sia insufficiente a compensare la pressione dei costi di vita metropolitani. La distinzione tra salario minimo e salario dignitoso, sempre più presente nel dibattito pubblico, evidenzia come il problema non riguardi solo la retribuzione oraria, ma l’intero modello economico e sociale del Paese.
L’aumento del salario minimo nel Regno Unito, dunque, si inserisce in un mosaico complesso, dove fattori economici, territoriali e culturali si intrecciano. La sua efficacia dipenderà dalla capacità del governo di accompagnare la misura con interventi complementari, volti a sostenere sia i lavoratori sia i contesti sociali più fragili, evitando che il beneficio economico si trasformi in un sollievo temporaneo destinato a svanire di fronte a dinamiche economiche più profonde.
Le prospettive future del salario minimo nel Regno Unito
Il dibattito sul salario minimo nel Regno Unito non si chiude con l’annuncio del nuovo aumento: al contrario, proprio questa decisione apre una fase nuova e più complessa nella politica economica del Paese. La misura approvata dal governo, infatti, non rappresenta un punto di arrivo ma l’inizio di un percorso che dovrà affrontare tensioni sociali, sfide occupazionali e interrogativi profondi sul modello di sviluppo britannico. Da un lato, l’aumento del salario minimo risponde all’urgenza di dare sollievo a milioni di persone alle prese con un costo della vita ancora elevato, ristabilendo un senso di equità salariale in una fase storica segnata da precarietà e pressioni economiche crescenti. Dall’altro, la misura rischia di accentuare fragilità già presenti nel mercato del lavoro, soprattutto per i giovani e per i settori con bassi margini, imponendo al governo un equilibrio delicato che dovrà tenere insieme inclusione, innovazione e sostenibilità economica.
La sfida principale riguarda la capacità di integrare l’aumento salariale con politiche di formazione, sostegno alle imprese, investimenti pubblici e interventi strutturali mirati a migliorare l’accesso alla casa, ai trasporti e ai servizi essenziali. Allo stesso tempo, sarà essenziale monitorare gli effetti reali della misura sul mercato del lavoro, valutando se gli aumenti favoriranno una riduzione delle disuguaglianze o se acuiranno il divario tra regioni e categorie sociali. In gioco non c’è solo l’efficacia di un provvedimento economico, ma la credibilità dell’intera strategia sociale del governo e la possibilità di costruire un modello di lavoro più equo e sostenibile per le generazioni presenti e future. In questo contesto, il salario minimo nel Regno Unito rimane un indicatore centrale delle trasformazioni in atto: un metro con cui misurare la salute economica del Paese e la capacità delle istituzioni di rispondere alle aspettative di una società in rapido cambiamento.
Aumenti previsti per il National Minimum Wage e il National Living Wage:
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Over 21 (National Living Wage): da £12.21 a £12.71 (+4.1%)
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Età 18–20: da £10.00 a £10.85 (+8.5%)
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Età 16–17: da £7.50 a £8.00 (+6%)
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Apprendisti: da £7.50 a £8.00 (+6%)
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Totale lavoratori interessati: circa 2.7 milioni
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