Mario Giacomelli, fotografia come poesia



Ci sono dei giovani che giocano a pallone. Altri si inseguono, come a nascondino. Altri ancora fanno a palle di neve. Sembrano spensierati: ridono, scherzano, parlano allegramente fra loro. Non ci sarebbe niente di strano, se non che indossano tutti una veste nera: è la talare dei seminaristi. Perché quei ragazzi – siamo agli inizi degli anni Sessanta – sono per l’appunto degli aspiranti sacerdoti, che stanno compiendo il loro percorso di formazione nel seminario di Senigallia. «Pretini», come li chiamava la gente del posto, con un misto di affetto e simpatia.
Fu il reportage che consacrò Mario Giacomelli, fotografo italiano tra i più celebri e amati a livello internazionale, proprio per lavori di questo genere: originali, poetici, coinvolgenti. Allora non aveva ancora 40 anni: era nato infatti nel 1925, in quella stessa Senigallia, nota località balneare delle Marche, dove ha trascorso l’intera sua esistenza. Così, nel centenario della nascita e a un quarto di secolo dalla sua scomparsa, Milano dedica a Giacomelli una grande mostra antologica, a Palazzo Reale (fino al 7 settembre), proprio con le foto dei «Pretini», nel loro evocativo e straniante bianco e nero, a fare da manifesto dell’evento.
Mario Giacomelli è stato un talento naturale. Non ha studiato fotografia, non ha fatto parte di grandi agenzie fotografiche, non ha fondato movimenti o correnti. Ma ha lasciato un’impronta indelebile in quest’arte dell’immagine.
Di famiglia povera, orfano a 9 anni, Mario inizia a lavorare da ragazzo in una tipografia. A fotografare comincia quasi per caso, insieme alla pittura e alla poesia, per dare sfogo a quella creatività che sentiva nell’animo. I suoi primi soggetti sono la gente del mare e i contadini della sua terra, le spiagge e le campagne. Ma anche le feste popolari e, per contrasto, i mattatoi e le case di cura. Emozionante il suo reportage a Lourdes, nel 1957, tra i fedeli e i malati, dove non c’è nulla di pietistico, ma dove emerge un’umanità vera, che soffre, che spera, che prega.
«A me non interessa tanto documentare quello che accade, quanto passare dentro a quello che accade», ripeteva infatti Giacomelli.
Proprio la serie dei «Pretini», in questo, è quanto mai emblematica. Per quegli scatti resta emozionante ancora oggi il titolo che lo stesso Giacomelli, da poeta fotografo, volle dare alla serie, scegliendo i versi di un altro poeta suo amico poeta, padre David Maria Turoldo: «Io non ho mani che mi accarezzino il volto».
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