Orbán e Meloni oggi hanno interessi diversi, ma continuano ad avere obiettivi comuni

Ottobre 30, 2025 - 02:30
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Orbán e Meloni oggi hanno interessi diversi, ma continuano ad avere obiettivi comuni

Sarebbe confortante pensare che nell’incontro tra Viktor Orbán e Giorgia Meloni le ragioni della vecchia amicizia si siano stemperate nella reciproca diffidenza e che, per trovare una vera corrispondenza di amorosi sensi, il Quisling ungherese abbia dovuto rifugiarsi nell’abbraccio di quell’altro consumato mestierante della russofonia ideologica, Matteo Salvini, che l’ha affettuosamente accolto al Ministero delle Infrastrutture.

Questo conforto presupporrebbe che la Presidente del Consiglio sia davvero diversa dalla leader che, pochi anni fa, eleggeva Orbán a modello etico-politico e risciacquava l’eredità post-fascista di Fiuggi nelle torbide acque della democrazia illiberale danubiana, riesumando molta della paccottiglia antimondialista ripudiata da Gianfranco Fini e tornata a farsi spazio non solo tra i cimeli del salotto di casa La Russa, ma, molto più concretamente, tra le retoriche anti-europee e etno-nazionaliste dei figli di un dio minore di Via della Scrofa.

Non c’è dubbio che le uscite incendiarie di Orbán sull’Europa che non conta nulla mettano in imbarazzo Meloni, che tiene a figurare tra i maggiorenti della nuova Europa e a rivendicare il merito di avere cambiato i connotati a quella vecchia e di averla spostata dall’asse del vecchio accordo consociativo tra popolari, liberali e socialisti.

Questo però non significa affatto che Meloni abbia cessato di pensare come Orbán, solo perché ha smesso di comportarsi come lui e ha raffreddato le retoriche incendiarie contro Bruxelles per accreditarsi come ponte tra le due sponde dell’Atlantico. Marciano divisi, con stili differenti, ma continuano a colpire uniti e a condividere l’obiettivo fondamentale della paralisi europea come condizione privilegiata di libertà e sovranità politica nazionale e come prezioso servizio alla strategia di Donald Trump.

Contano poco le parole di miele che Meloni riserva al coraggio degli ucraini e l’arabesco sull’estensione de facto dell’articolo 5 a Kyjiv, che starebbe fuori dalla Nato, ma è come se stesse dentro, giacché l’unica cosa chiara detta e riaffermata dal governo su quell’intricato dossier è che per la sicurezza dell’Ucraina l’Italia non è disposta a mettere né un euro, né un uomo e soprattutto non è disponibile a considerare quello della difesa europea, a partire dalla frontiera ucraina, un problema comune da affrontare con strumenti e strategie comuni, incompatibili con il potere di veto assegnato a ciascuno stato membro.

Meloni certamente non parla più come Orbán, ma si guarda bene dal parlare di Orbán, rifiutandosi di considerarlo per quello che è e continuando a riconoscergli la patente del perseguitato politico e l’alibi di un isolamento non provocatoriamente ricercato da lui per spaccare l’Unione europea, ma imposto da altri per cacciare dall’Unione europea un sano difensore dei valori tradizionali e nemico della dittatura woke.

Quando uno dei luogotenenti meloniani a Bruxelles, Nicola Procaccini spiega che la responsabilità dello scontro è dell’Unione che ha gettato Orbán nelle braccia di Vladimir Putin, contestandogli continue infrazioni rispetto al diritto europeo, si capisce quanto poco Fratelli d’Italia intenda rompere la propria unità d’azione con Fidesz e quanto poco sia disposto a riconoscere che l’attività di Orbán era ed è finalizzata a gettare l’intera Europa non tra le braccia, ma nelle fauci del Cremlino e che l’unico vero scrupolo di Meloni è non sbagliare il tempo dell’allineamento ai desiderata di Trump, quali che siano.

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Redazione Redazione Eventi e News