Segni di speranza in carcere
Foto Nicola Lipomo - Il Girasoledei CAPPELLANI DELLE CARCERI DI LOMBARDIA
«Finché ci sarà un prigioniero avremo la presenza del Cristo. La prigione è una Chiesa, una Presenza, un Tabernacolo, dove ognuno può incontrare, vedere il Cristo» (don Primo Mazzolari).
Non dovremmo stupirci per queste parole di don Primo. A meno di dimenticarci, pur conoscendole bene, delle parole di Gesù quando, immaginando il momento del giudizio finale, disse: «Ero in carcere e siete venuti a trovarmi…» ed «Ero in carcere e non siete venuti a trovarmi…» (Mt 25). Se in ogni uomo e donna reclusi noi incontriamo Gesù, allora il carcere può essere un luogo di salvezza, di redenzione, di speranza, per quanto difficile.
Una nuova possibilità
In carcere ci sono uomini e donne che hanno sbagliato, che hanno fatto del male alla società, anche in modo crudele e ripugnante. Chi ha subìto i reati spesso ne porterà i segni per tutta la vita. «Hanno sbagliato, devono pagare, chiudeteli in cella e buttate la chiave», capita spesso di sentire queste parole, pronunciate con troppa sicurezza. «Non perdere tempo con loro – sentiamo dire più volte -, spendi meglio il tuo tempo, non meritano». Allora è vero: è difficile vedere il carcere come una Chiesa, il luogo dell’incontro con Cristo. Anche se ci sembra che ormai siano diversi i luoghi in cui dovremmo – ma non sempre avviene – incontrare Gesù. Forestieri, poveri, indigenti, alle volte anche malati: non persone da incontrare e abbracciare, ma presenze fastidiose da evitare in ogni modo, anche scorretto. Gesù però ha scelto l’uomo così com’è, fragile e forte, capace di bene e di male, peccatore e santo, e il più delle volte tutte queste cose messe insieme. Gesù ama questo uomo, crede in lui, la sua presenza tra noi, che ancora oggi continua, è il segno che non disprezza nessuno, mai, nonostante tutto. Non si è fatto uomo tra i santi, ma per renderci santi. Ci indica una nuova possibilità, a immagine sua.
«Lo Spirito del Signore è sopra di me, per questo mi ha consacrato con l’unzione, e mi ha mandato per annunciare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi, a predicare un anno di grazia del Signore»: è il programma di Gesù annunciato nella sinagoga di Nazareth (Lc 4, 18-19).
Il carcere, come in ogni situazione dove c’è un uomo che soffre, è il luogo che attende la realizzazione della promessa di Gesù, la libertà per una nuova possibilità, e dunque per una vita migliore. Il cristiano deve imparare a guardare al fratello carcerato con gli occhi di Gesù, privi di condanna e colmi di compassione. Che non vuol dire dimenticare le vittime dei reati, ma aprire nuovi orizzonti di bene e di vita buona, questi sì capaci di portare alla consapevolezza del male compiuto e al desiderio di autentica conversione.
Il carcere, che pure appare come un mondo a parte, dove niente è scontato e tutto sembra disumano e assurdo, è davvero come una Chiesa. Nelle nostre Chiese ci sono comunità in cammino, consapevoli dei propri limiti e difetti, alle volte anche gravi, chiese che non riescono più ad annunciare né testimoniare, chiese che allontanano anziché avvicinare. Chiese però consapevoli degli errori e desiderose di perdono. Chiese che non perdono la speranza perché confidano più sulla grazia di Dio ricevuta, e non sulle capacità dei cristiani.
La clemenza negata
Sta per concludersi l’Anno santo 2025, per i cristiani un anno di grazia, un anno in cui ricordarci che la speranza non delude. Di speranze i detenuti ne hanno coltivate tante, forse un po’ interessate, non del tutto genuine. Desideravano che l’Anno santo portasse a qualche forma di amnistia, pensavano che il Papa potesse in qualche modo convincere chi governa a un atto di clemenza. È più che comprensibile. Papa Francesco lo aveva chiesto espressamente nella Bolla di indizione del Giubileo: «Propongo ai Governi che nell’Anno del Giubileo si assumano iniziative che restituiscano speranza; forme di amnistia o di condono della pena volte ad aiutare le persone a recuperare la fiducia in se stessi e nella società; percorsi di reinserimento nella comunità a cui corrisponda un concreto impegno nell’osservanza delle leggi». Ora non hanno più speranze, c’è un muro che impedisce la misericordia, esigenze viste come incompatibili con gesti di clemenza: certezza della pena, rispetto per le vittime, esigenze di giustizia, sicurezza dei cittadini. Tutto certamente giusto e da tenere presente; rimane però la domanda se è solo così che si possono ottenere, e se un gesto di clemenza negato a tutti davvero le favorisca.
Nella chiesa e nel Papa, nonostante le delusioni, i carcerati, anche coloro che non sono cristiani, continuano ad aver fiducia. Crediamo sia perché chi si prende cura di loro lo fa con lo sguardo di Gesù, compassionevole e incoraggiante anche se esigente, con parole capaci di tener viva la speranza, con il cuore che sa amare. È bello vedere che anche chi non è cristiano sa amare così. Nella convinzione che questa sia la strada capace di toccare il cuore di chi ha sbagliato. O almeno tentare.
Una Costituzione illuminata
Ci rincuora che, almeno nelle intenzioni, non sia solo la Chiesa a ritenere che l’uomo che sbaglia deve essere recuperato, che un vero cambiamento, più che dal castigo, passi attraverso la rieducazione e la stessa pena sia un reale e fruttuoso cammino di rieducazione. È lo Stato italiano che nella Costituzione ci fornisce le linee-guida da seguire verso chi compie reati. Rileggiamo l’articolo 27: «La responsabilità penale è personale. L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». Una Costituzione diremmo illuminata, frutto della saggezza di tutte le parti migliori della società che hanno saputo guardare al futuro con lungimiranza, una stella che guida il cammino da compiere che in realtà è ancora lungo. Ma che ci sembra dica che occorra cambiare prospettiva e abbandonare l’idea che l’espiazione della pena debba passare in gran parte dalla reclusione in carcere e tentare invece altre strade che garantiscano il più possibile la sicurezza dei cittadini, una giusta e rispettosa esecuzione della pena e il rispetto e la tutela di chi è stato offeso.
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