Arrestato a Tripoli il generale Almasri: perché l’Italia lo aveva lasciato andare
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Le autorità libiche hanno arrestato a Tripoli il generale Osama Almasri Njeem, alto funzionario della polizia libica e noto anche come “torturatore di Mitiga“, volto noto della repressione armata e figura centrale della Rada, la potente milizia specializzata nella lotta a terrorismo e criminalità organizzata, accusato di gravi crimini di guerra e contro l’umanità.
L’ufficio del procuratore generale libico ha riferito di aver raccolto prove sufficienti di torture e trattamenti crudeli e degradanti inflitti a detenuti, confermando che Njeem si trova attualmente in custodia cautelare in attesa di processo. Secondo la procura, un’indagine ha documentato abusi su almeno dieci prigionieri, con un episodio conclusosi con il decesso di un detenuto a causa delle torture subite.
Arrestato a Tripoli il generale Almasri
L’arresto di Njeem in Libia segue a distanza di mesi una controversa vicenda avvenuta in Italia. All’inizio del 2025, infatti, il generale libico era transitato sul territorio italiano. Il 18 gennaio 2025 la Corte penale internazionale emetteva un mandato di arresto nei confronti di Almasri per crimini contro l’umanità e di guerra commessi in Libia.
Il giorno dopo, Njeem veniva arrestato a Torino dalla polizia italiana in esecuzione del mandato internazionale. Tuttavia, il 21 gennaio 2025, la Corte d’Appello di Torino non convalidava il fermo, rilevando un vizio di forma nella procedura d’arresto. Su iniziativa del governo, in appena due giorni, Njeem veniva rilasciato e immediatamente espulso. Il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi firmava un decreto di espulsione e un volo di Stato riaccompagnava il generale in Libia.
Il governo libico cambia rotta: piena cooperazione con la Corte dell’Aia
All’aeroporto di Tripoli Njeem veniva accolto come un eroe dalla sua rete di fedelissimi. Tuttavia, nel maggio scorso, il quadro politico libico è mutato radicalmente. Il governo di Abdul Hamid Dbeibah ha ufficialmente riconosciuto la giurisdizione della Corte penale internazionale, segnando una cesura netta con il passato e aprendo la strada alla collaborazione con l’Aia.
Nei giorni successivi, la Rada è stata protagonista di violenti scontri nella capitale, che hanno provocato oltre 90 vittime e numerosi feriti tra i suoi sostenitori, indebolendone fortemente la posizione militare e politica. A rendere la situazione ancora più critica, le parole dello stesso premier Dbeibah, il quale ha definito, in una dichiarazione ufficiale, “inaccettabile” la presenza di Almasri: “Come possiamo fidarci di qualcuno che ha violentato una ragazza di 14 anni? Non posso accettare la presenza del criminale Osama Njeem dopo avere letto ciò che ha scritto la Cpi.”
Le accuse della Procura libica: torture e abusi nelle carceri
Quelle parole hanno fatto da apripista all’azione penale scattata negli ultimi giorni. Almasri è ritenuto responsabile di atrocità commesse nel carcere di Mitiga a Tripoli, struttura tristemente nota per la detenzione di migranti e oppositori. In qualità di capo del Dipartimento Operazioni e Sicurezza Giudiziaria del Ministero della Giustizia di Tripoli, Njeem avrebbe instaurato un vero regime del terrore nel penitenziario. L’inchiesta della CPI attribuisce al generale ben 34 omicidi avvenuti nel carcere sotto la sua gestione, oltre a casi di stupro (tra cui la violenza sessuale su un bambino) e innumerevoli episodi di tortura.
Secondo i giudici dell’Aia, il generale avrebbe personalmente picchiato, torturato, abusato sessualmente e ucciso alcuni detenuti, oltre ad aver ordinato alle guardie sotto il suo comando di compiere analoghe violenze.
Una liberazione che pesa: perché l’Italia lo aveva lasciato andare?
A questo punto, sorge inevitabile una domanda: perché l’Italia ha lasciato andare un uomo su cui pendeva un mandato di cattura per crimini contro l’umanità? Cosa ha davvero motivato il rilascio fulmineo e l’espulsione con volo di Stato, dopo un fermo durato appena 48 ore? Al di là dei tecnicismi giuridici invocati per giustificare la mancata convalida dell’arresto, il caso rappresenta una grave macchia sulla reputazione internazionale del nostro Paese. Mentre la CPI chiedeva la consegna del torturatore, l’Italia ha scelto di accompagnarlo nella sua roccaforte anziché di consegnarlo alla giustizia internazionale.
Oggi, con l’ex capo della sicurezza libica finalmente in cella, la gestione italiana della vicenda appare ancor più imbarazzante. La sensazione è che, dietro quella liberazione, si celassero interessi politici, equilibri delicati con le autorità libiche o una volontà di non compromettere la cooperazione in materia di migranti. Ma a che prezzo?
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