Con il valzer dei direttori creativi di oggi, ci si chiede cosa farebbero i fondatori dei brand se fossero ancora vivi

Novembre 20, 2025 - 19:01
 0
Con il valzer dei direttori creativi di oggi, ci si chiede cosa farebbero i fondatori dei brand se fossero ancora vivi

«La moda? È fissità in movimento. Era uno degli aforismi di Manuela Pavesi, fotografa, musa e intellettuale che ha fatto del vestire il suo lavoro e degli abiti la sua passione, e che considero la mia mentore. Lei, con quella definizione, ha catturato la natura paradossale della moda: pur basandosi su elementi statici come le silhouette, evolve nel tempo a mo’ di un organismo che attraversa diverse fasi della sua vita».

Da Leonardo DiCaprio a Julia Roberts, così le star salutano re Giorgio

Davide Fornari, direttore del dipartimento Ricerca e Sviluppo dell’Écal (École cantonale d’art) di Losanna ed esperto connoisseur di estetica applicata al design, si infiamma ogni volta che sente «all’ennesimo cambio di direttore artistico, il mantra melodrammatico “Chanel o Balenciaga si staranno rigirando nella tomba”». Mentre tutta la fashion people aspetta impaziente l’esordio di Pierpaolo Piccioli proprio da Balenciaga, di JW Anderson alla sua prima collezione donna per Dior e di Matthieu Blazy da Chanel, non ci si ricorda che i fondatori delle Maison che li hanno “assoldati” furono letteralmente rivoluzionari.

Cambi di direzione creativa e scontri ante litteram

Christian Dior nel Dopoguerra sconvolse il mondo con quella che passò alla storia come la linea New Look: spalle arrotondate, vitini strizzati e gonne immense sostenute da strati di fodera. E, detto en passant, alla sua morte venne sostituito da un giovane genio che era il suo opposto, tale Yves Saint Laurent. Ma il pubblico rimase a bocca aperta: per estasi e/o per indecenza.

Christian Dior mentre disegna uno schizzo, poco prima della sua morte, avvenuta il 24 ottobre 1957 (Bettmann/Getty Images)

Quei metri e metri di stoffa per un solo vestito parevano un’eresia dopo anni di tessere e razionamenti: alcuni critici bollarono le creazioni di Dior come spreco offensivo, e qualcuno definì quelle silhouette roba da nonne. Chi? Ma Gabrielle Chanel, ovvio: «Sono abiti disegnati da un uomo che non conosce le donne, non ne ha mai avuta una, e sogna di esserlo».

Un colpo basso, certo, ma indicativo di una cosa: lei detestava la nostalgia rétro. A chi la immagina come un’eterna guardiana di tailleur bouclé (tra l’altro ispirati dall’uniforme di un ascensorista, come dire, precorrendo il workwear) ricordiamo che fu la prima a scandalizzare, sdoganando il jersey (tessuto povero da biancheria intima) perché voleva, ebbe a dire, «vestire le povere da ricche», tagliando i capelli alle donne, invitandole ad abbronzarsi, mettendole in pantaloni e perfino in maglie da marinaio. «Se Coco fosse qui», immagina Fornari, «forse apprezzerebbe l’idea che una donna ricca possa andare a una cena elegante con un look semplice ma tagliato e costruito a regola d’arte».

Tre giganti: Balenciaga, Dior e Chanel

E Cristóbal Balenciaga? Oggi lo si venera come il sommo classicista, ma nel suo tempo era un avanguardista audace. Quando introdusse il vestito a sacco nel 1957 – un abito dritto che cancellava il punto vita, l’anti-New Look per eccellenza – la stampa si scatenò: «È davvero difficile essere sexy con indosso un sacco!», ironizzò il Daily Mirror . Suona familiare? La verità è che Cristóbal ridefiniva il sexy a modo suo, spostando l’attenzione dalla forma del corpo a quella dell’abito, e aprì la strada a silhouette moderne. Che cosa succederebbe se oggi fosse vivo? «Forse sarebbe una figura appartata come allora, lontana dai riflettori social, ma il suo marchio di fabbrica – la sperimentazione sul taglio e il volume – non mancherebbe. Magari lavorerebbe sulla tecniche sartoriali senza però tornare indietro di 70 anni. In fondo, fu proprio Balenciaga a dire: «Una donna non ha bisogno di essere perfetta o nemmeno bella per indossare i miei abiti. Il vestito farà tutto questo per lei».

Quindi: chi meglio di lui capirebbe l’istinto di provocare per rinnovare? Nel suo tempo, le donne eleganti iniziarono a vestirsi da Balenciaga proprio perché offriva qualcosa di diverso dall’ovvio. Chanel, appena il suo stile diventava troppo copiato, cambiava direzione – fu lei a sostenere che «la moda è fatta per diventare fuori moda», perché solo così si rinnova. E Dior concordava: «La saturazione porta la moda a buttare alle ortiche quello che fino a poco tempo prima adorava». In poche parole, quando una tendenza si diffonde troppo, la si abbandona e se ne crea un’altra. È il ciclo eterno del nuovo che scalza il vecchio. Come scrisse il semiologo Roland Barthes, «Ogni nuova moda è rifiuto di ereditare, è sovvertimento contro l’oppressione della vecchia moda; la moda si vive come un diritto, il diritto naturale del presente sul passato».

Certo, si devono preservare i famosi codici della Maison: «Però, se penso al caso Prada», riflette Fornari, «da quando Raf Simons è co-direttore creativo, sono stati reinventati, rivisitati, reinterpretati. Io amo lo stile Prada di dieci anni fa, i miei studenti lo amano di più adesso».

La capacità di innovare

Insomma, quei tre giganti non erano affatto figure statiche: erano visionari dinamici, sempre un passo avanti. Immaginiamoli qui, oggi. «Una cosa è certa: non starebbero a copiare ciò che hanno già fatto. Nessuno di loro rifarebbe pari pari il tailleur Chanel del 1954, l’abito Giunone di Dior del 1949 o la tunica di pizzo di Balenciaga del 1967. Quelli furono capolavori per il loro tempo. Oggi ne servirebbero di nuovi. È qui che la retorica del “si staranno rivoltando nella tomba” mostra la corda: presuppone che questi designer fossero custodi di uno stile fisso, anziché agenti del cambiamento. È il contrario. Erano disposti a rompere le regole per affermare la propria visione. E lo farebbero di nuovo, senza dubbio», conclude Fornari.

Completo in tweed bianco e nero, indossato con una camicetta di flanella gialla, creazione di Coco Chanel per la collezione Autunno 1958. (KEYSTONE-FRANCE/Gamma-Rapho/Getty Images)

Prima di terminare, un aneddoto: Coco in un’intervista nel 1959 rivelò di lavorare fino all’ultimo minuto alle sue collezioni perché «in tre settimane si può fare molto». La giornalista stupita chiese: «Davvero fino all’ultimo giorno?». E lei: «Oui, la mode va très, très vite!», va velocissima. Quanta attualità in queste parole. Social media, fast fashion, microtrend: lei li aveva intuiti. Non puoi predire una tendenza con troppo anticipo, perché tutto può cambiare.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

The post Altro che classici. Quando Christian Dior, Coco Chanel e Cristóbal Balenciaga provocavano appeared first on Amica.

Qual è la tua reazione?

Mi piace Mi piace 0
Antipatico Antipatico 0
Lo amo Lo amo 0
Comico Comico 0
Furioso Furioso 0
Triste Triste 0
Wow Wow 0
Redazione Redazione Eventi e News