Il caso dei campi Sinti a Pavia, e la malattia del consenso a breve termine

Viviamo nell’epoca dell’immediatezza, dove i social media ci mettono di fronte a messaggi ultra-semplificati, attraverso i quali la riflessione lascia il posto ai sentimenti, o meglio, al sentiment. Anche la politica non è esente da questo mutamento. La politica dell’oggi, quella che guarda la strada e non l’orizzonte, che sceglie il consenso immediato come se la sua stessa esistenza dipendesse da questo, confonde sempre più il mezzo – il consenso, appunto – con il fine ultimo. Il caso mediatico della gestione dei campi Sinti a Pavia, arrivato alle cronache nazionali, è solo l’ultimo esempio di questo fenomeno.
Nell’ambito del Progetto Waterfront, legato ai fondi del Piano nazionale di ripresa e resilienza, risulta necessaria la chiusura di un campo Sinti posto in una zona centrale della città. Parliamo di un progetto elaborato almeno quattro anni fa dalla giunta precedente a guida Lega. Lo spostamento di quel campo e l’individuazione di un’area sostitutiva a Pavia Est furono messi nero su bianco proprio da quella maggioranza, vincolando, di fatto, l’ottenimento dei diciassette milioni europei a questa azione. Cosa accadde dopo? Il nulla. Nessun atto, nessuna azione concreta. La verità è che mancarono i voti e il coraggio per affrontare una decisione così complessa, con la paura di alienarsi centinaia di voti a ridosso delle elezioni.
Giugno 2024: elezioni comunali, vince il centrosinistra. Per oltre un anno, l’amministrazione lavora, con la collaborazione di assistenti sociali e professionisti, per fare in modo che la comunità Sinta presente in quel campo trovi soluzioni abitative autonome. Su ventisei famiglie, la metà ci riesce. Tuttavia, gli altri nuclei necessitano di una diversa soluzione, che tuteli loro e che salvaguardi gli investimenti pubblici del Piano nazionale di ripresa e resilienza. Così la giunta porta in consiglio la delibera che va a finanziare la riqualificazione dell’area nel quartiere Est di Pavia, come soluzione abitativa per quelle tredici famiglie. Alcuni residenti protestano, non sono d’accordo con la scelta. Com’era prevedibile, è emersa la classica sindrome «NIMBY» (Not In My BackYard): nulla contro il nucleare, i rigassificatori o i Sinti, però non nel mio giardino.
Qui entra in gioco la politica: puoi decidere se spiegare ai cittadini una scelta e percorrerla, in vista di un interesse generale da salvaguardare, oppure puoi fare leva su quella porzione di cittadini, strumentalizzare quei dubbi e ottenere consenso immediatamente spendibile. La politica dell’oggi, appunto. La destra ha scelto la seconda via: da alcune settimane, diversi esponenti di Fratelli d’Italia e Lega (anche noti a livello nazionale, come Silvia Sardone e Gian Marco Centinaio) hanno avviato una campagna propagandistica, affermando che si starebbe costruendo un terzo e aggiuntivo campo a Pavia.
In realtà, i campi Sinti a Pavia sono già tre: semplicemente, uno di questi verrà chiuso e riqualificato grazie al Piano nazionale di ripresa e resilienza. Per quelle tredici famiglie senza dimora verrà adibito lo spazio nel quartiere Est. Il numero dei campi in città non aumenta, ma il totale di Sinti residenti nei campi si riduce, come conseguenza di un processo concreto di integrazione.
Per questo spostamento, la giunta ha stanziato in via precauzionale un milione di euro, ma si prevede di spenderne una cifra decisamente inferiore. I residenti si chiedono: «Quindi per spostare queste persone investite quasi un milione di euro?». La risposta è: «Sì». Sì, perché questo investimento consente di salvarne uno da oltre diciassette milioni di euro. Non spostare quel campo comporterebbe un danno economico senza precedenti per la nostra città e per la credibilità del Comune nei confronti della Regione Lombardia e delle istituzioni europee.
Dobbiamo chiederci: siamo davvero pronti a rinunciare alle opere pubbliche previste e alla riqualifica di un’area che i cittadini chiedono da decenni? Le opzioni sono solo due: o si attua questo investimento per salvare diciassette milioni, o si buttano quei diciassette milioni e insieme il futuro di Pavia. Tertium non datur.
Non possiamo non chiederci dove porti questo modo di fare opposizione e che cosa lo abbia prodotto. Forse hanno ragione loro. Forse oggi la politica deve davvero la propria sopravvivenza al sentiment: non ha più il coraggio né la credibilità per ottenere consenso a partire dalle proprie convinzioni. Forse è costretta a inseguire soluzioni in funzione del consenso, invece di costruire consenso a partire dalle proprie idee. Magari la politica dell’oggi permetterà a questa classe dirigente di sopravvivere, ma si tratta pur sempre di un abbraccio mortale: subire i processi anziché governarli. Questa direzione ci porta su un crinale pericoloso, quello dell’irresponsabilità, del «tanto non governiamo noi». Soprattutto, i giovani che cominciano a fare politica hanno il dovere di risalire la china: c’è un disperato bisogno che essi, in primis, agiscano per una politica che detti la linea, anziché inseguirla.
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