La dittatura dei pezzettini ci ha resi adulti che spolliciano come quindicenni annoiati

Novembre 16, 2025 - 08:30
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La dittatura dei pezzettini ci ha resi adulti che spolliciano come quindicenni annoiati

Sono giorni che mi passa davanti Gratteri, che io neanche so bene chi sia, credo un pubblico ministero, ma quel che è importante è che è da tre giorni il pezzettino preferito di quella che Lorenzo Jovanotti ha ieri, presentando i suoi concerti dell’anno prossimo, definito «la nuova santa inquisizione dei social network», e io invece chiamerei «la dittatura dei pezzettini».

Della dittatura dei pezzettini abbiamo già parlato diverse volte, è quell’andazzo per cui nessuno legge più non dico un libro ma un articolo, nessuno guarda più non dico un film ma un programma televisivo, in compenso tutti siamo pieni d’opinioni sui prodotti che vengono messi sul mercato non si sa più bene per chi non perché li abbiamo consumati ma perché ne abbiamo visti dei pezzettini mentre spolliciavamo il telefono in attesa che l’acqua per la pasta bollisse.

In questi giorni, l’algoritmo mi fa vedere soprattutto le reazioni a due pezzettini, e uno dei due pezzettini è questo Nicola Gratteri che legge un’intervista in cui, ci assicura, Giovanni Falcone si diceva contrario alla separazione delle carriere tra pubblici ministeri e giudici, un tema quasi più avvincente del maggioritario e del proporzionale e sul quale quindi i giornali c’intrattengono da una trentina d’anni.

Quell’intervista, s’indignano tutti coloro che l’algoritmo mi propone, Falcone non l’ha mai data. Ne è a questo punto al corrente anche Gratteri, che dice che si è fidato di uno che gliel’ha mandata mentre lui era lì a guardare le notifiche del cellulare durante il programma televisivo di Giovanni Floris, e ha fatto male a fidarsi.

A questo punto Lorenzo Jovanotti, che cerca disperatamente di boicottare la dittatura dei pezzettini mettendoci dentro dei pensatori invece che dei meme, citerebbe Borges dicendo che «eravamo, come sempre, alla fine dei tempi», e io posso anche essere d’accordo. Ma, temo, per ragioni diverse da quelle per cui s’indignano tutti coloro che mi passano davanti sui social.

L’intervista non era vera! Un magistrato che non controlla le fonti! Ma mica era nelle sue stanze a decidere se un porocristo fosse colpevole o innocente: era in un talk-show. Se uno non dice cazzate non verificate in un talk-show, dove diavolo le deve dire? Mi state dicendo che voi finora trattavate i talk-show come fonti di verità comprovate? Come luoghi informativi? Come contesti culturali? Ma davvero?

Lo so che ora mi direte che la tv è a tesi e che premia il sensazionalismo e per La7 vale quel che Francis Fukuyama dice dell’internet, che considera colpevole di tutti i populismi «agendo nell’interesse della massimizzazione dei profitti, guidando il pubblico a fonti che un tempo non sarebbero mai state prese sul serio», ma state sopravvalutando dei programmi che non hanno come scopo quello di disinformare: hanno come scopo quello di risparmiare. L’unica qualità richiesta agli ospiti è che ci vadano gratis. Se poi, come nel caso di Gratteri, generano anche un pezzettino che tutti posteranno, si stappa lo schiumante.

Stiamo parlando di un meccanismo talmente cialtrone che gli ospiti tengono il telefono acceso. Il telefono! Con le notifiche! Una roba talmente disastrosa per la concentrazione che la levano persino ai concorrenti del “Grande fratello”, e nei talk-show no, nei talk-show la gente spollicia come quando sta seduta sul cesso così a un certo punto, se proprio si annoia, può dire al conduttore: le leggo quest’intervista di Falcone.

Che poi: non era vera, e va bene, ma se lo fosse stata? Sarebbe andato invece bene il ricatto del morto? Sarebbe stata un’argomentazione sensata? Se siete a favore di questa legge fate rivoltare il morto famoso nella tomba? Ma cosa siamo, alle scuole medie perpetue?

L’altro pezzettino che mi passa davanti da giorni è quello di Carlo Calenda che, all’università di Bologna, viene interrotto da due tizi che vogliono sapere perché coi soldi che diamo all’Ucraina non facciamo invece funzionare gli ospedali. E io di solito sui pezzettini non clicco, perché non voglio diventare una di voi con una soglia d’attenzione che v’impedisce non dico di leggere un libro ma pure di guardare un film, ma su questo ho cliccato, e per fortuna.

Perché, essendo un incontro con gli universitari, se non avessi cliccato avrei pensato che Calenda si era appiccicato con due ventenni, e invece ho cliccato e ho visto questi due signori di mezz’età, questi due signori coetanei miei e di Calenda, questi due signori alle scuole medie perpetue, i quali hanno l’età alla quale mio nonno metteva la dentiera nel bicchiere, e uno dei due al collo ha la kefiah che mettevamo quando avevamo l’età delle assemblee d’istituto e il verso che più ci esaltava di Guccini non era «ma il tempo, il tempo chi me lo rende?», ma «trionfi la giustizia proletaria» (dopo aver squarciagolato il quale tornavamo a casa a mangiare quel che ci aveva lasciato in caldo la cameriera, che non sospettavamo ci sarebbe stata sottratta da un’eventuale giustizia proletaria).

Carlo Calenda, che pochi giorni prima aveva pensato che il gesto giusto per un ultracinquantenne che ci tiene all’Ucraina fosse farsi un tatuaggio e fotografarlo per i like, improvvisamente era l’adulto, in confronto a questi due adolescenti senili con la kefiah che non sapevano per cosa protestavano.

E sì, io capisco che Calenda che chiede ai due disgraziati impreparati quanti miliardi siano stati dati all’Ucraina e quanti ne siano stati spesi nel bonus facciate esalti un pubblico trasversale, all’interno del quale ci sono sì quelli che non ne possono più della cialtronaggine, ma anche quelli che si eccitano quando qualcuno fa le domande di cultura generale ai deputati per strada – sorvolando sul fatto che quel qualcuno, se le risposte non se le fosse preparate per l’occasione, non le saprebbe neanche lui.

Capisco il godimento degli spettatori che vedono sbugiardato un ignorante e rimuovono l’idea che potrebbero essere parimenti sbugiardati essendo parimenti ignoranti; capisco l’esaltazione nel vedere messo in discussione il concetto anch’esso sintetizzato da Jovanotti cui quindi arrubbo di nuovo il lessico: «Viviamo nell’epoca delle notizie che sono più importanti dei fatti». Capisco tutto, giuro.

Però io, scusate, non riesco a prestare attenzione ad altro che al fatto che ci sia qualcuno che prende sul serio le cose dette in un programma televisivo dove i politici hanno gli applausi chiamati dall’assistente di studio e gli ospiti neppure s’incomodano a spegnere il telefono, e al fatto che ci siano miei coetanei che ancora vanno in giro con la kefiah. E sì, lo so che ho in questo articolo citato abbondantemente un sessantenne che va ancora in giro col cappellino da baseball, ma quello fa la popstar: voi che scusa avete?

Il problema non è la disinformazione. Il problema è che un pubblico, un elettorato, un’umanità che si rifiuta di vestirsi da adulta e di accendere la tv per vedere roba più degna dei talk-show è un’umanità che la disinformazione se la merita.

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Redazione Redazione Eventi e News