La prudenza del Pd sul referendum sulla giustizia

Ottobre 30, 2025 - 02:30
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La prudenza del Pd sul referendum sulla giustizia

A un certo punto nella sala Koch del Senato, un’aula grande che era mezza vuota dove ieri mattina si è riunita l’assemblea dei gruppi parlamentari del Partito democratico, è risuonata una frase un po’ sinistra: «Si prega i signori passeggeri di allacciare le cinture di sicurezza». Non era un messaggio politico, che peraltro sarebbe risultato consono alla situazione, ma la voce uscita dal collegamento da remoto della senatrice Tatjana Rojc che si trovava in volo. Risate per stemperare un clima descritto come abbastanza preoccupato. Già, che fare di fronte al referendum sulla separazione delle carriere dei magistrati? Scontata l’indicazione per il No. Ma come darla? Con quale messaggio politico? Perché come al solito non la pensano esattamente tutti allo stesso modo.

Laura Boldrini, musa dello schleinismo all’ennesima potenza, ha definito la riforma Meloni-Nordio «un attacco alla Costituzione»: bisogna stare attenti ai toni perché se si alzasse troppo il tiro bisognerebbe fare le brigate Garibaldi, altro che i comitati per il No. Ma la linea del Partito democratico è un’altra. Toni più cauti. Non quelli dell’Anm, per intenderci.

I giuristi come Andrea Giorgis e Alfredo Bazoli, ma anche altri, sono apparsi molto più sobri e, come si dice, sono rimasti sul merito: si tratta di una riforma che non è affatto a favore dei cittadini, dato che concretamente non agisce sul vero problema, che è quello della lentezza dei processi, e al tempo stesso tende a colpire l’indipendenza dei pubblici ministeri creando per esempio due Csm distinti.

Questa di Nordio è una riforma – questa la sintesi – che cade in un contesto in cui il governo sta indebolendo alcuni presidi democratici. Ma niente toni da “Fischia il vento”.

È chiaro che la questione vera è la politicizzazione del referendum. La presidente del Consiglio non se la giocherà alla Matteo Renzi, vittima della personalizzazione che egli stesso diede alla consultazione del referendum costituzionale del 2016. Meloni ha capito la lezione gratuitamente offerta dall’allora premier. Ieri ha colpito l’alert di Ignazio La Russa che in questo senso ha smorzato l’enfasi sul referendum, un indizio significativo. Ma al tempo stesso la presidente del Consiglio sa bene che se prevalesse il Sì per il governo sarebbe un lasciapassare fino alla fine della legislatura che, dice qualcuno, a quel punto potrebbe anche interrompersi in autunno con la premier con il vento forte a favore e il campo largo magari ancora lì con il teschio in mano come Amleto a chiedersi chi è il leader.

Di qui la relativa cautela di Elly Schlein, il cui intervento era molto atteso per capire il grado di “amsterdamizzazione” della sua linea, se cioè la segretaria avesse intenzione di giocare il referendum come giudizio di Dio sul governo. Ebbene, no. «Teniamo toni moderati e misurati», ha detto Schlein in un discorso ovviamente molto duro verso un esecutivo che a suo dire si è inventato questa riforma per distrarre gli italiani dai veri problemi, la sanità, il lavoro eccetera.

Contrariamente all’invettiva di Amsterdam sull’«allarme democratico quando l’estrema destra è al governo» che le ha causato una violentissima polemica da parte della premier, ieri la leader del Pd è parsa dunque fare un passo indietro. La separazione delle carriere dei magistrati è una pessima idea, ma non mette in gioco la democrazia: è già qualcosa per evitare di farsi del male.

Quindi il Pd chiederà un No di merito pur sapendo, come qualcuno ha detto ieri mattina, che nel Paese «c’è un effetto Garlasco» che può determinare una diffusa ostilità verso la magistratura, tale da fare del referendum un’occasione per punirla.

La speranza del Nazareno è che i suoi elettori corrano alle urne e i sostenitori del centrodestra ci vadano di meno: non essendoci il quorum conterà la capacità di mobilitare i propri seguaci. Tuttavia Schlein non intende politicizzare il referendum – nel senso di non farne un giudizio elettorale su Meloni – ma al tempo stesso sa bene che un effetto politico da quelle urne inevitabilmente scaturirà.

Se per scelta dello stesso Pd non è in questione il governo, se prevalessero i No per Meloni non sarebbe più di tanto un problema. Se vincesse il Sì il problema invece sarebbe tutto di Elly Schlein che, dopo il Jobs act, avrebbe perso un referendum per la seconda volta su due. E stavolta in un match diretto contro Giorgia Meloni. Per cui, toni sobri. Ciao Amsterdam.

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Redazione Redazione Eventi e News