Yara Gambirasio, 15 anni fa la scomparsa della 13enne di Brembate: la storia in 10 foto
Aveva soltanto 13 anni, Yara Gambirasio, quando è scomparsa da Brembate di Sopra, in provincia di Bergamo. Era il 26 novembre 2010 ed oggi sono esattamente quindici anni da quando le foto di quella ragazzina sorridente – l’innocenza delle stelline sui denti – sono entrate anche nelle nostre case, attraverso i notiziari e i giornali che continuavano a ritrarla.

Quella sopra è forse una delle sue foto più famose. Yara era alta rispetto alla media delle ragazze della sua età, con grandi occhi e capelli castani. Era un’atleta di ginnastica ritmica e in questa disciplina si impegnava tantissimo: si allenava quasi tutti i giorni per ore, condividendo sessioni intense con le sue compagne di sport. Chi la conosceva la descriveva come socievole, spensierata e legatissima alla sua famiglia.
Anche per questa sua passione per la ginnastica ritmica, e per il fatto che la giovane passasse così tanto tempo in palestra, in un primo momento le ricerche si concentrarono subito all’interno della struttura sportiva: la Polisportiva Brembate di Sopra. La sera in cui è scomparsa, infatti, sebbene non fosse un giorno di allenamento, Yara si era presentata in palestra intorno alle 17:15 solo per portare alle sue istruttrici uno stereo che sarebbe servito per una gara. Meno di un mese più tardi sarebbe stato Natale. Nella Bergamasca, le temperature nelle ultime settimane erano calate a picco. Yara indossava un giubbotto nero ed era partita a piedi da casa sua, a poche centinaia di metri di distanza. Alla fine si era intrattenuta fino alle 18:30 circa, quando per l’ultima volta le sue compagne del centro sportivo l’avevano salutata.

Secondo le ricostruzioni, per tornare a casa Yara avrebbe percorso la strada più breve ma meno illuminata e battuta: via Pietro Morlotti. La madre, non vedendola arrivare, alle 19:15 decide di telefonarle. Ma il cellulare, da quel momento in poi, risulterà spento.

Immediatamente parte la denuncia di scomparsa, poi le speculazioni. Le fotografie di Yara tappezzano la città. La storia diventa di dominio pubblico. C’è chi è certo l’abbiano rapita, chi crede che si tratti di un sequestro per il quale occorrerà un riscatto. Una cosa è certa: non si tratta di un allontanamento volontario. E’ la prima cosa che mette in chiaro il sostituto procuratore Letizia Ruggeri, titolare delle indagini. “Abbiamo sentito familiari, le istruttrici, le compagne di danza, gli amici, chiunque, ma non si ha notizia, nelle ore precedenti alla scomparsa, di qualcosa che giustificasse un suo desiderio di fuga. E una ragazza così presa da una passione artistica difficilmente decide di privarsene”.

In famiglia tutto sembra in ordine. Nessun litigio con la madre Maura Panarese, insegnante d’asilo. Rapporti sereni con il papà Fulvio, geometra impiegato in un’azienda del paese. Ottimi rapporti anche con i tre fratelli di 15, 9 e 4 anni. I carabinieri del nucleo investigativo di Bergamo ascoltano tutti: familiari, amici, genitori degli amici, un ragazzino per cui Yara nutriva simpatia.

Si perlustra ogni angolo di Brembate. I cani molecolari si sporcano nel fango, si cerca in pozzi, cascinali, fiumi e torrenti. Niente. Vengono anche sentite alcune persone con precedenti per atti di violenza o molestie sessuali o con segni di squilibrio psichico, ma tutti hanno un alibi per la sera del 26 novembre. La verità è che per tre mesi non succede nulla, Yara sembra sparita nel vuoto.
E’ così fino al 26 febbraio 2011. A Chignolo d’Isola, sempre nella bergamasca, un uomo appassionato di aeroplanini telecomandati sta giocando con uno dei suoi modellini. L’aeroplanino cade nell’erba di un campo. Lui si avvicina per recuperarlo e lo sguardo gli cade pochi passi più avanti: lì c’è quello che a primo impatto gli sembra un mucchio informe, una serie di vestiti ammassati. E’ il corpo di Yara e quei vestiti sono gli stessi che la ragazza indossava il giorno della scomparsa.

Il campo è poco lontano dall’ingresso della discoteca ‘Sabbie Mobili’, in una zona già segnata, tempo prima, dall’omicidio di un giovane. Eppure nessuno – né i clienti del locale, né i dipendenti delle aziende circostanti, né chi passa lì ogni giorno per correre o portare a spasso il cane – aveva notato nulla. Quando la professoressa Cristina Cattaneo, medico legale, esamina il corpo, individua diverse ferite da arma da taglio. Non sono però colpi fatali: la ragazza non ha perso la vita per dissanguamento, né per un’aggressione diretta. È morta lì, in quel terreno freddo, consumata dal gelo e dall’abbandono. Ha ancora fili d’erba stretti tra le mani, come se avesse cercato di aggrapparsi all’ultimo frammento di mondo rimasto. Da quel momento, la domanda è chi l’abbia portata lì. Gli esami rivelano un particolare significativo: sul corpo c’è calce viva, e sui vestiti compaiono microparticelle metalliche tipiche dei cantieri. Un indizio che sembra suggerire un contesto, un ambiente preciso.
E poi arriva il dato decisivo: il DNA. Sugli slip, accanto al profilo genetico di Yara, compare quello di un uomo. Gli investigatori intraprendono un’operazione mai tentata prima in Italia: cercare “Ignoto 1” tra migliaia di persone, raccogliendo campioni nell’ambito di un lavoro mastodontico. La traccia genetica conduce alla famiglia di Giuseppe Guerinoni, morto da anni. Da quel cromosoma Y si risale a un nome in vita: Massimo Giuseppe Bossetti, muratore di Mapello, padre di tre figli, senza precedenti.

E’ il 16 giugno 2014 e la vita di Bossetti viene sconvolta. Il Paese si divide: per alcuni quella traccia genetica è la prova definitiva, per altri resta un punto fragile. Lo racconta anche la docuserie Netflix ‘Il caso Yara: ogni oltre ragionevole dubbio’, pubblicata in cinque episodi a luglio 2024. Bossetti si è sempre dichiarato innocente e i suoi legali sostengono che quella traccia trovata sul corpo di Yara, esposto per tre mesi alle intemperie, non avrebbe potuto resistere così a lungo senza deteriorarsi. Proprio il Dna, invece, per i giudici di primo e secondo grado è sempre stata la prova regina della presenza di Bossetti sul luogo del delitto.

Ci sono anche altre prove contro Bossetti. Un mezzo del tutto simile a quello del carpentiere è stato filmato dalle telecamere di banche e negozi di Brembate di Sopra in un orario compatibile con quello della scomparsa di Yara e il cellulare dell’uomo ha agganciato proprio la cella di Brembate un’ora prima che venisse dato l’allarme. Bossetti viene condannato in primo grado e in appello all’ergastolo, sentenza confermata e divenuta definitiva in Cassazione il 12 ottobre 2018. Recentemente la difesa dell’ex muratore ha ottenuto la consegna delle copie integrali delle analisi genetiche – gli elettroferogrammi e le fotografie dei reperti – raccolti nel corso dell’inchiesta. Un dossier enorme, che contiene migliaia di profili genetici, in forma anonima, e che, nelle speranze della difesa, potrebbe contenere elementi utili per una possibile revisione del processo.

Nelle fotografie che accompagnano questa storia – sorrisi spensierati, volti di una adolescenza innocente, luoghi che oggi appaiono come crudi testimoni – emerge tutto il peso di un’assenza. A 15 anni di distanza, non possiamo permetterci di dimenticare.
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