La filiera del pomodoro divide l’Europa

Novembre 23, 2025 - 07:30
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La filiera del pomodoro divide l’Europa

Come sempre quando si tratta di cibo è una storia di scambi globali, di fiducia incrinata e di un frutto che, più di molti altri, racconta chi siamo. Il concentrato di pomodoro cinese, per anni protagonista silenzioso dell’industria europea, si è trovato improvvisamente senza mercato. Le esportazioni verso l’Italia – gigante mondiale degli ingredienti trasformati – sono crollate del 76 per cento nei primi nove mesi del 2025. Una frenata brusca, figlia dei dubbi sul presunto utilizzo di lavoro forzato nello Xinjiang come racconta il Financial Times e delle proteste per etichettature opache che hanno fatto vacillare la credibilità di alcune aziende italiane.

Nella regione cinese occidentale, dove la minoranza uigura vive sotto uno sguardo internazionale sempre più attento, il pomodoro è diventato un motore industriale: campi sterminati, grandi aziende statali, linee produttive pensate per l’export. Tra il 2021 e il 2024 la trasformazione è più che raddoppiata, fino a undici milioni di tonnellate di pomodoro fresco trasformato in concentrato. Ma la caduta della domanda europea ha invertito la rotta: quest’anno la produzione dovrebbe scendere a 3,7 milioni di tonnellate, lasciando nelle fabbriche cinesi una scorta stimata fra seicentomila e settecentomila tonnellate.

In Italia, Coldiretti ha guidato una campagna capace di intercettare timori profondi: la difesa del pomodoro nazionale e dei suoi agricoltori, stretti tra costi in aumento e concorrenza di prodotti a prezzi irraggiungibili. «È un segnale molto positivo», ha commentato Francesco Mutti, dopo che l’ondata di pasta cinese a basso costo ha iniziato a scomparire dalle nostre coste industriali. Ma il sollievo convive con una verità scomoda: alcune aziende italiane hanno mescolato concentrato cinese nei loro prodotti, vendendoli come “cento per cento italiani”. Un inganno che ha incrinato la fiducia dei consumatori e mostrato quanto fragile possa diventare una filiera quando cede sulla trasparenza.

La verità più scomoda, quindi, è un’altra: la crisi attuale non nasce dalla Cina, ma da noi. Da un sistema produttivo che ha accettato di mescolare origini diverse senza dichiararle, da controlli insufficienti, da una comunicazione industriale troppo pronta a vestirsi di tricolore e troppo poco disposta a essere trasparente. Il crollo del concentrato cinese non è solo un fatto di mercato: è una domanda di fiducia che l’Italia deve rivolgere a sé stessa prima ancora che al mondo.

Se oggi l’Europa si interroga sul pomodoro, se riconsidera cosa significhi scegliere una passata o una polpa, forse è il segnale di un cambiamento più grande. Uno di quelli che su queste pagine invochiamo da tempo: tornare a un’idea di cibo come responsabilità, non come arma identitaria. Ritrovare il valore del lavoro giusto, della tracciabilità reale, del rispetto delle persone e del territorio, senza trasformare queste esigenze in muri ideologici.

Forse, allora, la crisi del concentrato cinese può diventare un’occasione. Non per alzare nuove bandiere, ma per abbassare i toni. Non per difendere un nazionalismo gastronomico che non ha mai reso davvero più forti le nostre filiere, ma per costruire un sistema capace di dire la verità sul proprio cibo, sempre. Anche quando la verità è scomoda e anche quando il cibo non è cento per cento italiano.

L'articolo La filiera del pomodoro divide l’Europa proviene da Linkiesta.it.

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