Non basta mettere «bio» davanti a «combustibile» per farne un carburante pulito: allo scarico c’è sempre CO2

Novembre 22, 2025 - 20:00
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Non basta mettere «bio» davanti a «combustibile» per farne un carburante pulito: allo scarico c’è sempre CO2

C’è un’idea che piace al nostro governo e alle lobby del fossile: basta mettere “bio” davanti a “combustibile” e questo diventa automaticamente pulito. È una parola attraente, che profuma di natura. Ma quando questa soluzione purtroppo illusoria entra nel cuore dei negoziati climatici globali, si rischia di aggravare proprio la crisi che dovrebbe risolvere. Ed è esattamente ciò che sta accadendo con i biocarburanti alla COP30.

L’Italia è arrivata a Belem proponendo tre piste per la transizione, che non sono né rinnovabili, né efficienza energetica ma nucleare, gas “pulito’ e soprattutto biocarburanti. Non è un caso che non abbia dato il suo accordo perché la UE sottoscrivesse la “Roadmap per l’uscita dai fossili” a Belem, già appoggiata da più di 80 paesi e adesso diventata il tema di discussione centrale dopo la pubblicazione di un testo di conclusioni che non contiene alcun riferimento alla necessità di iniziare un percorso di uscita dai fossili e l’Italia non è certamente tra i 29 paesi che hanno minacciato di boicottare la COP30 se non avesse incluso questo aspetto nelle sue conclusioni, dato che non menzionarlo sarebbe un passo indietro rispetto al Global Stocktake e impegni precedenti.

C’è veramente da chiedersi perché un paese come l’Italia, con un enorme potenziale in rinnovabili ed efficienza, con imprese all’avanguardia nei settori green, stia facendo dei biocarburanti il suo maggiore punto di attenzione e azione alla COP. Ma la risposta è in realtà abbastanza semplice.  I biocombustibili sono stati presentati come un modo per ridurre la dipendenza dai combustibili fossili senza affrontare il passaggio al “tutto elettrico”, da sempre inviso al governo e alle grandi aziende del gas e del petrolio, ENI e SNAM in testa. E cosi, l’11 novembre, Italia, Brasile, India e Giappone — due grandi produttori e due importatori — hanno firmato il cosiddetto Belém 4x Pledge: un impegno a quadruplicare l’uso di biocarburanti entro il 2035 rispetto ai livelli del 2024. L’idea è semplice: possiamo continuare a usare i motori a combustione, basta riempirli di carburante “bio”. Ma la realtà è molto diversa.

Pochi giorni prima della COP30, oltre cento scienziati da tutto il mondo avevano pubblicato una lettera aperta rivolta ai negoziatori, avvertendo che una massiccia espansione dei biocarburanti rischia di aumentare le emissioni globali di gas serra, aggravare la deforestazione e mettere in pericolo la sicurezza alimentare. Secondo le loro analisi, quadruplicare il consumo mondiale di biocarburanti potrebbe generare decine di milioni di tonnellate di CO₂ in più ogni anno; e già oggi si prevede che entro il 2030, che i biocarburanti emetteranno ogni anno 70 MtCO₂e in più rispetto ai combustibili fossili che sostituiscono, l'equivalente di 30 milioni di nuove auto diesel in circolazione; insomma, l’esatto contrario di ciò che una strategia climatica degna di questo nome dovrebbe produrre.

Il punto è che bio non significa pulito. Un biocarburante è “bio” per origine — perché deriva da biomassa — non per ciò che produce quando lo bruci. E ciò che produce, allo scarico, è sempre lo stesso: CO₂, ossidi di azoto e particolato fine, esattamente come benzina e diesel, anche se il modo in cui vengono prodotti cambia anche il loro impatto: ma non sono una

soluzione per emissioni, polveri sottili e morti premature legate all’inquinamento atmosferico. La combustione resta combustione: cambia il nome, non gli effetti.A questo si aggiunge un secondo nodo, ancora più pesante: la competizione con la produzione di cibo e le foreste. È vero che esistono biocarburanti “avanzati”, derivati da scarti e residui, ma rappresentano una quota molto limitata del totale. La gran parte — oltre l’80% — è ancora prodotta da colture dedicate come mais, colza, soia, palma e girasole. Queste coltivazioni richiedono terra, acqua, fertilizzanti, pesticidi e, in qualche caso hanno sostituito foreste e terreni agricoli destinati al cibo. Nel 2023 l’industria globale dei biocarburanti ha consumato 150 milioni di tonnellate di mais e 120 milioni di tonnellate di zucchero: quantità sufficienti a garantire il fabbisogno calorico minimo di 1,3 miliardi di persone. In un mondo segnato da crisi alimentari ricorrenti, questa competizione tra cibo e carburante è una scelta che rasenta l’irresponsabilità.

Il caso italiano è paradossale perché non abbiamo una particolare convenienza ad aumentarne la quota di consumo. Nel nostro Paese i biocarburanti coprono circa il 5% dei consumi nei trasporti. Ma ne produciamo pochissimi: la quasi totalità arriva da fuori. I principali Paesi da cui importiamo biocarburanti o materie prime sono Spagna, Indonesia, Paesi Bassi e Austria. L’Italia non ha abbastanza terra per produrli senza sottrarre spazio al cibo, ai boschi o perfino alle città. Se davvero volessimo quadruplicarne l’uso, come chiede il Belém Pledge, l’unica via sarebbe aumentare ancora di più le importazioni, contribuendo così — indirettamente ma concretamente — alla deforestazione e alla pressione sulle terre agricole altrui, a partire dal Brasile. Anche dall’Europa non arrivano buone notizie. Mentre si promuove un aumento massiccio dei biocarburanti, la Commissione europea ha proposto di rinviare e indebolire la normativa anti-deforestazione (EUDR), proprio quella che avrebbe reso più trasparente e controllata la filiera di prodotti come legname, soia e olio di palma. Considerato che la UE è responsabile del 10% del disboscamento globale, l’effetto potrebbe essere molto negativo: più domanda e meno controlli.

Questo non significa che i biocarburanti siano inutili in ogni circostanza. Possono avere un ruolo limitato in settori difficili da elettrificare, come l’aviazione e parte del trasporto marittimo, o in progetti locali ben regolati basati su veri scarti agricoli o boschivi. Ma resteranno sempre relativamente marginali. Semplicemente, non c’è abbastanza biomassa sul pianeta per trasformarla in carburante in modo da sostituire benzina e diesel per milioni di auto. E in ogni caso i vantaggi per emissioni e inquinamento sarebbero nulli o limitati.

E qui arriviamo al punto finale: il motore a combustione interna è inefficiente per definizione: spreca il 75% dell’energia in calore. Per ogni 10 euro di carburante, 7,5 euro non servono a far muovere l’auto. È una tecnologia che appartiene al passato e che l’illusione dei biocarburanti rischia di mantenere artificialmente in vita, dirottando risorse preziose che sarebbero invece necessarie anche per una filiera europea di mobilità elettrica o altre tecnologie utili a mitigazione ed adattamento.

È davvero importante che questi pochi fatti, piuttosto elementari, entrino in un dibattito pubblico per adesso completamente bloccato su alcune frasi ripetute a pappagallo: le rinnovabili sono controverse e comunque non bastano, ci vogliono gas e nucleare per sostenerle; le auto elettriche sono poco attraenti e non è necessario cambiare il maschio sistema del motore a scoppio perché possiamo usare i biocarburanti, il gas può essere “ripulito” ed è un elemento essenziale di una transizione che si vuole “eterna”. Con buona pace della competitività della nostra economia e della resilienza dei nostri territori.

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