Niente permessi retribuiti per i dipendenti pubblici che studiano all’università telematica

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Una recente pronuncia della Corte di Cassazione ha chiarito un punto controverso nel rapporto tra diritto allo studio e lavoro pubblico.
Con l’ordinanza n. 25038 del 2025, la Sezione Lavoro ha stabilito che i dipendenti pubblici iscritti a università telematiche non possono beneficiare dei permessi retribuiti per motivi di studio, a meno che non dimostrino che le lezioni da seguire si svolgano in orari coincidenti con il proprio servizio.
La decisione, destinata a incidere su centinaia di lavoratori del pubblico impiego, ribalta le valutazioni dei giudici di primo e secondo grado, che avevano invece riconosciuto ai dipendenti il diritto a utilizzare tali permessi anche per corsi online, senza dover fornire ulteriori giustificazioni sull’orario delle lezioni.
Il caso: un conflitto tra flessibilità didattica e regole contrattuali
La vicenda trae origine da un contenzioso tra alcuni dipendenti dell’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli e la loro amministrazione. I lavoratori avevano chiesto di usufruire dei permessi previsti dall’articolo 48 del Contratto collettivo nazionale del comparto Agenzie fiscali per seguire corsi universitari erogati da atenei telematici.
L’amministrazione aveva però negato il beneficio, sostenendo che, trattandosi di corsi online, non esistevano orari di lezione rigidi e quindi non vi fosse alcuna necessità di assentarsi dal lavoro durante l’orario di servizio. Secondo l’ente, i permessi studio sono concepiti per consentire la frequenza di corsi che si svolgono in momenti precisi e coincidenti con l’orario lavorativo, condizione che non si verifica nel caso delle lezioni telematiche, accessibili in qualsiasi momento.
I giudici del Tribunale e della Corte d’appello di Milano avevano tuttavia dato ragione ai lavoratori, interpretando la normativa contrattuale in senso più ampio: il diritto allo studio, secondo le prime due sentenze, non può essere limitato dal formato del corso universitario, purché lo studente sia regolarmente iscritto e sostenga gli esami previsti.
La Cassazione ribalta le decisioni: “assenze giustificate solo se l’orario coincide”
La Cassazione ha invece accolto il ricorso dell’Agenzia delle Dogane, sostenendo una lettura più restrittiva del contratto collettivo. I giudici supremi hanno chiarito che i permessi retribuiti per studio hanno una funzione ben precisa: giustificare l’assenza dal lavoro per la partecipazione a lezioni o attività didattiche che si svolgono durante l’orario di servizio.
Secondo la Corte, questa condizione non si verifica nei corsi erogati da università telematiche, dove la fruizione delle lezioni avviene in modalità asincrona, cioè senza un vincolo di orario. Gli studenti possono accedere ai contenuti quando desiderano, anche al di fuori dell’orario lavorativo.
In assenza di una coincidenza temporale tra l’attività formativa e l’orario di lavoro, viene meno – spiega la sentenza – il presupposto stesso per concedere il permesso retribuito. “Il permesso – si legge nel provvedimento – serve a giustificare l’assenza dal servizio per la partecipazione a corsi coincidenti con l’orario di servizio, non per attività di studio o preparazione agli esami.”
La necessità di certificazioni e il richiamo alla disciplina contrattuale
La Corte richiama anche quanto previsto dall’articolo 46 del CCNL Funzioni Centrali 2016-2018, che regola il diritto allo studio nel pubblico impiego. Tale disposizione prevede la possibilità di usufruire fino a 150 ore annue di permesso retribuito, ma stabilisce che il lavoratore debba presentare documentazione idonea: certificato di iscrizione, attestato di partecipazione ai corsi e, al termine, quello relativo agli esami sostenuti.
La Cassazione sottolinea che, nel caso delle università telematiche, il dipendente dovrebbe fornire un’ulteriore prova: una certificazione dell’ateneo che attesti che le lezioni possono essere seguite esclusivamente in determinati orari coincidenti con l’orario di servizio. In mancanza di tale dimostrazione, il permesso non può essere riconosciuto.
Il principio, già espresso in precedenti decisioni della stessa Corte (sentenze n. 10344/2008 e n. 17128/2013), viene così ribadito: il permesso non copre genericamente lo studio personale, ma solo la frequenza effettiva di lezioni o attività didattiche che si sovrappongono all’orario di lavoro.
Università telematiche e diritto allo studio: un equilibrio difficile
La sentenza affronta un nodo cruciale del lavoro contemporaneo, in cui l’accesso all’istruzione superiore è sempre più legato alla formazione online. Le università telematiche, nate per garantire flessibilità e inclusione, consentono agli studenti di conciliare impegni professionali e percorsi accademici. Tuttavia, proprio questa flessibilità rappresenta, secondo la Cassazione, il motivo per cui i permessi retribuiti non possono essere concessi automaticamente.
Il principio enunciato dalla Corte mira a evitare che il diritto allo studio si trasformi in un privilegio non giustificato. Se lo studente può scegliere liberamente quando seguire le lezioni, non vi è motivo – spiegano i giudici – per giustificare un’assenza retribuita dal lavoro. L’onere della prova ricade dunque sul dipendente, che deve dimostrare che la frequenza sia effettivamente incompatibile con l’orario di servizio.
La decisione pone però anche un interrogativo di fondo: il modello delle università telematiche, basato su lezioni registrate e fruibili in qualunque momento, può realmente essere equiparato a quello tradizionale? E se sì, fino a che punto il lavoratore-studente può dirsi penalizzato rispetto a chi frequenta corsi in presenza?
Le conseguenze della pronuncia
Con l’accoglimento del ricorso dell’amministrazione, la Corte ha respinto la domanda originaria dei lavoratori e ribadito un principio che potrebbe avere effetti significativi su future controversie.
Da un lato, le amministrazioni pubbliche vedono confermata la necessità di una gestione rigorosa dei permessi studio, limitandoli ai casi in cui vi sia un’effettiva sovrapposizione tra le lezioni e l’orario di servizio. Dall’altro, i dipendenti iscritti a corsi telematici potrebbero trovarsi in una posizione di svantaggio, poiché la possibilità di studiare in orari flessibili viene paradossalmente interpretata come motivo per negare l’accesso ai benefici previsti per il diritto allo studio.
Le spese legali dei precedenti gradi di giudizio sono state compensate, vista la complessità e la novità della questione, mentre quelle relative alla fase di legittimità seguono il principio della soccombenza.
Un precedente destinato a fare scuola
La pronuncia della Cassazione si inserisce in un contesto normativo in evoluzione, dove la formazione a distanza è sempre più diffusa anche nel settore pubblico. La questione solleva riflessioni più ampie sull’adattamento delle norme contrattuali a un mondo del lavoro in trasformazione, in cui la distinzione tra tempo di lavoro e tempo di studio diventa sempre più sfumata.
In assenza di un aggiornamento della contrattazione collettiva o di linee guida ministeriali specifiche, la decisione della Suprema Corte potrebbe rappresentare un punto di riferimento stabile per le amministrazioni pubbliche e per i lavoratori che intendano conciliare studio e impiego.
Resta però aperto il dibattito su come garantire pari opportunità a chi sceglie percorsi formativi online, evitando che la modalità telematica, nata per ampliare l’accesso all’istruzione, diventi invece un ostacolo al pieno esercizio del diritto allo studio.
Il testo della sentenza
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